C’è un libro che forse non avete notato, in questa passata stagione. Piccoletto e grazioso, verdeazzurro infinito e mele rosse, grosse, mature in copertina. S’intitola L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi, è portato in Italia da Keller (la traduzione, dal romeno, è di Ileana M. Pop), e la firma è quella di Tatiana Țîbuleac, che, al suo secondo romanzo, raccoglie il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania, il Premio Las Librerías Recomiendan e il Premio Cálamo al Miglior Libro dell’Anno.
La vicenda è lunga un’estate, o forse una vita: Aleksy, famoso pittore sotto blocco creativo, viene incoraggiato dal suo terapista a scavare dentro di sé per individuare gli intoppi di percorso, gli ingranaggi poco oliati che impediscono la creazione e che hanno gettato Alesky nel vortice delle droghe e delle paranoie psicotiche. Ma non bisogna aspettarsi cavalcate nelle steppe, perdersi nel cuore dell’Africa, pozioni ed esperimenti per risvegliare la parte maligna di sé. Aleksy ha già ben chiaro ciò che gli stanno dicendo: dovrà tornare, corpo e mente, a quell’estate. Agli ultimi mesi di vita di sua madre, che i due trascorsero insieme, villeggianti improbabili in un paesino della campagna francese, cercando di riavvolgere il tempo perduto e riconciliarsi a un passo dall’addio.
A pelle sembra una storia già scritta: una Spoon River piccola e personale, in cui i fantasmi da evocare sono quelli in cui trasformiamo le persone che abbiamo perso – e Aleksy, di perdita, ne sa qualcosa. Nonna arcigna, padre scomparso, una sorella minore vittima di un misterioso incidente in tenera età; amori irrealizzabili, impulsi castrati, e una maledizione che aleggia sul suo percorso, mettendo in pericolo chiunque gli si avvicini. Ma no, non sono morti che parlano, pronti a rivelare verità ghiacciate da riportare alla prossima seduta, sdraiati su un lettino di velluto. Țîbuleac sposta il fuoco un po’ più in basso, più giù nella terra. Una zona di confine ctonio, in cui i vivi si uniscono ai morti. È lì che si trova Aleksy, da lì che la sua voce ci raggiunge con una narrazione in prima persona folgorante, che trascina in avanti come un cavallo al galoppo e non si stanca mai di stupire. E che, soprattutto, non si prende mai troppo sul serio:
«Il giorno in cui mia madre morì ci sentivamo entrambi come due ladri che avevano rapinato una banca. […] Passammo tutto il giorno a chiacchierare ininterrottamente, mangiando noci e mele, ma senza mai parlare dell’essenziale. Mi separai da mia madre senza che lei sapesse che l’avevo perdonata. Di pomeriggio si alzò il vento e andai in casa a prenderle una coperta. Al mio ritorno, dondolava morta nell’amaca come una crisalide con un principio di farfalla».
A dare ritmo sono, come suggerisce il titolo, gli occhi verdi della madre, che scandiscono la scoperta dell’altro, per la prima volta libera da sofferenza, rabbia, diffidenza. Pensieri che si assommano come preghiera e che cercano, per figura retorica, di definire che cosa è stata, senza giudizio, lo madre:
«Gli occhi di mia madre piangevano da dentro», «Gli occhi di mia madre erano uno sbaglio», «Gli occhi della mia brutta madre erano i resti di una madre sconosciuta molto bella», «Gli occhi di mia madre erano campi di steli infranti».
L’accumulo costruisce un’inquadratura a camera statica, immobile come le fissazioni dell’Aleksy pittore, che solo nei colori riesce a comunicare compiutamente il suo mondo interiore. Ecco allora che sulla tela passa il proprietario di un alimentari sgangherato, abile smerciatore di salsicce scadute a poco prezzo. La fornaia del paese che scandisce la stagione con la sua produzione, molto se è turistica, e poi via via a scemare fino alla fine dell’estate; con lei si assottiglierà anche la madre di Aleksy. La misteriosa Moira, figlia del locatore che fornisce una casa vacanza a madre e figlio. Nome numinoso, che accompagnerà il passaggio alla vita adulta del protagonista solo per essere anche lei, infine, preda di un destino cieco.
Non è facile, immersi nella mente di Aleksy, capire dove finisca la realtà e inizi il simbolo. Ma, come dimostra l’autrice, impedendoci di uscire dalla gabbia del punto di vista unico, diegetico, non è questo l’importante.
Tutto il punto de L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi si può forse riassumere nel contrasto con quanto scriveva Jeanette Winterson di un certo frutto nel suo Non ci sono solo le arance: se lì, infatti, l’onnipresenza degli agrumi assolati indicava la necessità di staccarsi da un ambiente tossico e scoprire la gamma completa di quanto la natura può offrire, il percorso di Aleksy sembra invece essere inverso. In questo senso, le mele della copertina, che maturano anche loro alla fine dell’estate, alternandosi alla presenza della madre sulla terra, sono un assoluto: non c’è che il mondo del protagonista, la sua verità. Non altro che la sua parola ci è donata per costruire il nostro orizzonte di lettori.
È un sentiero di montagna, ispido e tortuoso. A volte la scrittura di Țîbuleac impenna come una salita inaspettata. La visione dalla cima, però, non ha eguali. Parla di vita, in barba alla morte. Costringe a chiedersi chi sia il sotterrato, tra tutti i personaggi. E riporta alla mente le ultime parole de I morti di James Joyce, posto in chiusura della raccolta Gente di Dublino: la differenza tra the living e the dead. Non ciò che è organicamente in vita, bensì che continua a esistere; e ciò che abbiamo dimenticato, sepolto sotto cumuli di neve.
L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi parla, decisamente, di cose che abiteranno questa terra ancora a lungo.
In copertina:
Umberto Boccioni, Materia, 1913