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Nanda, ragazza America. E noi



C’è stato un tempo in cui, a venticinque anni, bisognava scegliere da che parte stare. E c’è chi l’ha fatto, quando questo ha significato coraggio, perché voleva dire mettere in gioco la vita: Fernanda Pivano lo aveva deciso molto prima, da che parte stare, quando era stata la sola a fare come il compagno di classe Primo Levi, consegnando agli esaminatori della maturità un tema apertamente antifascista. Lo farà di nuovo, quando la traduzione fatta quasi per gioco – «Qual è la differenza tra letteratura americana e inglese?» – dell’Antologia di Spoon River viene pubblicata da Einaudi aggirando la censura fascista come la raccolta di scritti di un non meglio precisato S. River.  Una felice intuizione di Cesare Pavese – supplente di liceo, poi mentore, poi innamorato respinto (con dolore di entrambi, col senno di poi) – sempre maestro, che le aveva prima consegnato il testo originale e poi (così amava raccontare) scovato gli appunti dentro a un cassetto.  A 25 anni, però, Pivano corre il rischio più grande della sua vita, che diventerà «il suo impensabile turning point. Il contratto di traduzione di Addio alle Armi, intercettato dai nazisti, le costerà l’arresto e gli interrogatori, poi l’interesse di Hemingway, che per questo vorrà incontrarla, a Cortina (nella totale incredulità della giovane benestante e vittoriana Fernanda) e, stringendola in uno dei suoi leggendari hugs le sussurrerà «tell me about the Nazis».
Per lui, da allora in poi, lei sarà daughter. Fern, invece, per Pavese, nelle lettere che le mandava. Il celebre «Si faccia una vita interiore – di studio, di affetti, d’interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» – e vedrà che la vita avrà un significato» che vale a monito dei ragazzi di ogni tempo, ha eternato questo nomignolo in quasi tutte le antologie scolastiche delle scuole medie. Per tutti quelli che le volevano bene, però, lei sarà sempre Nanda. A cominciare da tutti i suoi coetanei di allora, a cui ha regalato un nuovo mondo. Che aveva la forma di quell’America delle quattro libertà su cui Roosevelt voleva costruire gli Usa del dopoguerra, e poi di quella libera e ribelle, che voleva andare, non importa dove, ma andare sempre, guidata da pace e amore. Ma che, per i ragazzi che oltreoceano sono nati, tra le mille luci di New York, aveva anche la forma di un’Italia dove il loro sogno aveva trovato la migliore delle portavoce possibili.

Fernanda Pivano


Si sono sempre capiti, lei e i ragazzi, riconosciuti tra simili, nell’entusiasmo incorrotto e pieno di ideali ma mai – checchè se ne dica – privo di lucidità, che ha guidato lei nel suo lavoro di ponte. Faceva infatti, Fernanda Pivano, qualcosa di più intelligente, empatico e necessario della mera critica o della traduzione. Forse perché sapeva cosa vuol dire essere ragazzi, tra i sogni e la paura. Lo sapeva anche a quasi novant’anni, all’alba degli anni Zero, quanto può essere un’avventura essere ragazzi nel tempo dell’incertezza del futuro, nella fame di vita e nell’incoscienza di trovare la propria strada. Forse per questo ha scelto uno di loro, un venticinquenne della provincia di Vicenza, per essere le sue mani e la sua voce nell’ultimo pezzo della sua strada, il momento in cui consegnare ai ragazzi di domani la memoria della ragazza che anche lei era stata. Lui si chiama Enrico Rotelli e si trova a firmare la curatela di un’opera monumentale e preziosissima, i Diari di Nanda (usciti per volontà di Elisabetta Sgarbi, con una meritoria e coraggiosa scelta di evitare quanto più possibile i tagli, per gli allora classici Bompiani). «Sono stata sempre abituata ai Tascabili, quelli che i ragazzi si potevano infilare nel cappotto e uscire dalla libreria senza pagarli. Coi classici non possono farlo. Adesso sono un classico!» commenterà, prima spaventata poi divertita, con una chiosa che illumina molto, se non tutto, della persona che è, lei che lungo la sua vita è stata sempre invisa all’accademia, quando non apertamente rifiutata, come Rotelli sintetizzerà evocando tutta la sua amarezza per la reiterata mancata nomina a Senatrice a vita. Ma, prima di quell’emozionante e titanico lavoro, Rotelli è stato, per cinque anni, una parte di Nanda in forma di assistente personale, e lei ha fatto, di quel venticinquenne felicemente arrogante e pieno di dubbi come sono tutti alla sua età, l’uomo che sarebbe diventato. E questa è una storia che andava raccontata. Rotelli ci ha messo quasi quindici anni, da quel 18 agosto 2009 in cui Fernanda Pivano ha raggiunto «gli spazi profumati dell’eternità», come ama dire. Oggi quel racconto esiste, ed è un regalo a tutti i lettori, non solo a chi continua ad essere legato alla donna cui dobbiamo l’arrivo in Italia di pressochè tutta la letteratura statunitense del Novecento. È uscito da alcuni giorni, Nanda ed Io, per La Nave di Teseo (e non avrebbe potuto essere altrimenti, per chiudere il cerchio). A Rotelli è servito probablmente il tempo di diventare uomo, per guardarsi indietro e fare i conti con una pagina della sua vita che, a vederla con gli occhi di allora, era probabilmente troppo grande per essere guardata con il necessario equilibrio. Soprattutto per chi ci si trova improvvisamente, chiamato senza aspettarselo ad un compito di cui, a parte la dimestichezza con la lingua inglese, non conosce regole e strumenti. Un gesto tipico, di Fernanda, l’abbondanza di fiducia nei giovani di cui si fida. Lo fa spesso, nel corso della sua vita, fin dagli anni Settanta, in cui radunava ragazzi di vent’anni seduti senza scarpe sul pavimento del suo celeberrimo appartamento di via Manzoni, in cui sono entrati perché lei consegnava loro (lo farà anche con Enrico, anche se nel frattempo è cambiato il portachiavi) un mazzo di chiavi targato Fernet: dove Et è Ettore Sottsass, grande amore e strazio della vita emotiva di Fernanda, che al suo tradimento deve forse (è sempre Rotelli a notarlo, con schietta lucidità) il rapporto non sempre semplice con le giovani donne cui avrebbe, chissà, voluto somigliare.

Fernanda Pivano

Il ritratto che le pagine di Rotelli fanno emergere, infatti, ha l’unicità della sincerità. È affettuoso, certo, ma non è mai agiografico né retorico. Il Rotelli adulto ha trovato il momento giusto per raccontare Nanda per come è, geniale e appassionata, senz’altro – varrebbe la pena di contare il numero di volte in cui ricorre la parola “entusiasmo”: centinaia, e così vale per il termine “sogno”. E insieme umanissima, nelle sue fragilità, del cuore e dell’età: la pagina dedicata al primo viaggio insieme negli USA, o i momenti in cui Nanda paga dazio alla sua salute ed Enrico le resta accanto ha il passo avvincente di certi film. C’è, per lampi eloquenti, tutta la storia di Nanda, i suoi incontri, i suoi ideali che non vengono meno neanche quando il mondo sembra averli distrutti. Ci sono le piccole manie e le grandi generosità di chi ha molto vissuto. Quale giovane assistente saprebbe gestire con lucidità un errore significativo sui calendari se l’assistita non rispondesse con un sorriso «Ma pensi che mi diverta più qui con te o a cena col Principe?». Ci sono, soprattutto, i suoi amici, tratteggiati da chi c’era con la vividezza di dialoghi in cui Judith Maina, Erica Jong, e gli altri sembrano parlare per essere ascoltati, per passare un testimone a chi, oggi, è il ragazzo che sono stati. Sono pagine che evocano un tempo che forse non c’è più, come molti dei suoi protagonisti, da Mr Papa e i suoi hugs a Jack Kerouac, che Nanda, come sua madre, ha sempre chiamato Ti Jean. Il piccolo Jean. Di tutti loro, Rotelli evoca memorie attente a rimettere a posto i conti con la realtà, come quando Bukowski, a Nanda che chiede perché scrivesse tanto di sesso risponde qualcosa che suona come «altrimenti non avrei venduto così tanto» . È trascorso il tempo, ma non sconta il passare degli anni l’essenza dell’essere ragazzi che trasuda dalle pagine, scritte dalle dita di un ragazzo attraverso gli occhi di una che diceva «non fidarti di chi ha più di trent’anni». C’è, soprattutto, ed è la scelta più felice che Rotelli fa, tanto di Enrico, nelle sue pagine. C’è il suo percorso di persona in costruzione, a rendere queste pagine perfette non solo per i cultori della materia, ma per chiunque si è sentito, un giorno, sulla soglia della sua vita e si chiesto chi è e chi vuole diventare, e se ha la forza di farlo. Ci si riconoscerà, chiunque si senta fuori tempo sulla vita e sogni qualcuno disposto a fidarsi di lui abbastanza da indicargli la strada. C’è (e se arriva solo in queste righe è perché su Nanda ci sarebbero ancora da spendere migliaia di pagine) la consapevolezza di un autore letterariamente maturo che ha frasi fulminanti:


«Prima dei venti, facciamo di tutto per essere considerati adulti e, nonostante gli sforzi, chiunque può vedere che i nostri abiti sono nuovi come la nostra vita e la nostra pelle. Le scarpe no. Le scarpe dei ragazzi diventano vecchie dopo nemmeno una settimana».


E ancora, c’è la provincia del corpo e dell’anima, che ingolfa i pensieri da cui fuggire («un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», dice Pavese) proprio grazie, perché no, al sogno d’America che Nanda ha consegnato a tutti i ragazzi. «Mi faceva sentire come se avessi trovato qualcuno che capiva di cosa avevo bisogno», scrive Rotelli, e il suo libro sta lì a dimostrare che è ancora così, ed è per questo che di Nanda – per inciso, più femminista delle femministe o di quanto credesse di essere – non si può parlare al passato. Aiuta ancora a scoprire sé stessi e il potere delle parole, dove si trova «tutto quello che si deve fare per essere liberi» anche in un mondo o in un tempo che libero non è. A patto di riporre in sé, e nel proprio essere ragazzi, un po’ della fiducia che aveva lei. Ma non dimenticare di dover camminare sulle proprie gambe, prima di guardarsi indietro, Come fa Rotelli, che ha tradotto per la Bompiani di Beatrice Masini Il Grande Gatsby raccogliendo il testimone proprio dalla sua maestra, e che oggi scrive dall’America dei libri di ragazzi dei nuovi anni venti seguendo, a proprio modo, il suo esempio: Tenendo ferme ancora le sue parole d’ordine, molto meno retoriche e più impegnative di quanto a molti piaccia ammettere: pace, amore: perché è su questi semi che si salvano i ragazzi. Cercando di essere, come supplicava tutti i giovani a cui voleva bene: «un po’ felice, meglio se molto». 

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