Quando una storia parla di noi, difficilmente si tratta di eroi. Ma a guardar bene, chiunque sopravviva al catastrofismo del non-sense (il groviglio liceale alle budella, che passa mai) merita una coccarda, una corona. Un fumetto – magari, anche, sì. La sindrome di Leonardo è quella del cantastorie, convinto che i suoi racconti siano sue ramificazioni vitali, sue coste: senza loro resta una voce muta, inumana, inutile: se non compone, lui scompare. Eppure qualsiasi poveraccio che non abbia ancora tappato del tutto il proprio pertugio creativo, Llenasianamente parlando (Il buco, edito da Gribaudo, disegna bene la forma di talento e caratterizzazione), capisce di cosa stia parlando Maurizio Rosenzweig, senza essere lui. Ovvero un pupazzettista di sé ottimamente armato – le tavole (da Pinocchio a Davide Golia), le collaborazioni (tra Bonelli e Dark Horse Comics), gli tengono da più di trent’anni la matita in mano. Che M.R. continua a temperare entro secessioni di gomma-pane, intellettuali e inverosimili, sbriciolate nella filosofia del giorno a perdere.
Il linguaggio Rosenzweigiano, scritto a pugno nei balloons, sempre forbito. Leggere i «ché» aiuta a non «vessare» l’idioma entro onomatopee iperboliche e – sbadabam! – concentra sull’episodio. L’acedia di Leonardo, che vive sorvegliato dalla figlia, lontano dall’ex-moglie, a pochi passi dalla scuola di fumetto ove insegna ciondolando, fa rabbrividire persino i suoi personaggi (le sue personalità); questi lo pedinano con la costanza del Grillo parlante per dirgli pressioni, magre consolazioni, disistime. Il creativo in crisi è affetto da una sorta di binge drawing, per cui continua a produrre monche fanta-cronache sotto l’influsso di nausea e senso del dovere, con risultati inconcludenti per vignette forzate. Si assiste a una scatola narrativa spalancata su una mente dolente: fumetti nei fumetti con lo scopo di verosimiglianza psicodrammatica: stili su stili sotto stilema paroxetimico: “ciao” e “addio” allo stesso momento, in viso alle comparse di lapis.
La vicenda è da seguirsi in penombra tenendo il segno. Una delle ossessioni di Maurizio-Leonardo c’entra col tempo e lo cavalca grazie a redini infinite – le pagine non sono numerate, gli orologi son senza lancette, le vite rimescolano ere («quanto tempo è per sempre? A volte solo un secondo»). Lentamente la fretta avvelena gli istanti e la pressione convoglia, controvoglia e controsenso, verso il niente, che poi incarta l’alibi perfetto («ma è già stato pubblicato tutto. È impossibile trovare un’idea nuova»; «Tutta quella libertà è stata la mia gabbia»).
Tantissimi i riferimenti cólti e massmediali – dai film di Romero al cartone sui Lego, Louis de Funès accanto a Robin Williams. Altissime le ossessioni: il traffico, la normo-patia, il rumore, gli oggetti, il disagio mentale. Leonardo ricopre ogni cosa di muscoli, fa crescere la tappezzeria delle ossa, occupa più spazio però… sente sempre meno quel che gli serverebbe, mentre s’alzano le interferenze da baggiano che imbonisce l’“io” anziché guarirselo («io… credo che siamo simboli travestiti da persone»).
«La depressione, signor Levitsch, l’ha salvata dalla vita di prima che non funzionava più», sogghigna il terapista allo sdraiato. Ma oramai il labirinto è stato tracciato, Leonardo indossa persino il mantello – rosso come Cappuccetto, come Superman, come la coperta di Linus – e svolazza di panico in panico adagiando sui pollini più avvelenanti («vivi tra chi sei e chi vorresti essere»; «diventiamo le storie che inventiamo»).
A tratti il senno alza il volume e compone degli aforismi nati per restare e sorridere delle macerie («so che lo sai, ma te lo devi anche ricordare»; «i soldi costano»), già pronti per serigrafie su t-shirt e mug. Altre volte parla il malditesta al proprio fumo («io non faccio il fumettista, sono un fumettista»), all’ego («non mi importa si ricordino la storia. Vorrei si ricordassero di lei»).
Persone e krampus, ciclopi e orsi, vampiri e ratti. Quando gli sketch si fermano poiché Leonardo ha capito che non serve cercare quanto ascoltare, le tavole prendono aria – bianco e spazio –, sincerità. Gli smascheramenti degli archetipi (“padre”, “figlio”, “artista”, “maestro”) sfilano i guanti, gettano il costume. Il segno esplode, incisorio e lunare. «È arrivato il momento di recuperare quell’amore che la paura ha reso mediocre».