«Le cose più delicate di una lingua si capiscono nella perdita, nella distanza ─ ad esempio: quando cominci a sentire che sei uno straniero dovunque, e la lingua è forse l’ultima cosa che ti resta del luogo da dove sei venuto.»
Gianni Celati intervistato da Marco Sironi nel 2003
Non sono racconti per anime belle Racconti romani di Jhumpa Lahiri (Guanda) e né buon intrattenimento per farci comprendere o indurci a commiserare altre vite; non sono veloci e incalzanti, né scritti con una prosa pronta per le immagini di una serie tv (le riflessioni sono di/e tratte da La letteratura circostante): sono racconti che cercano i propri modelli nello stile classico del Novecento letterario italiano e omaggiano una certa tradizione – ricca e variegata – del racconto, di cui Lahiri si era già occupata nella felice silloge edita per Guanda Racconti italiani: scelti e commentati da Jumpha Lahiri, un testo che nasceva in inglese con le traduzioni della scrittrice e poi, in un secondo momento, in italiano; e, di grande interesse in quanto intende dialogare con il prezioso volume Racconti italiani del ‘900 edito nella collana Meridiani da Mondadori curato da Enzo Siciliano e nostro malgrado difficile da reperire.
Jhumpa Lahiri, di famiglia e lingua bengalese, è cresciuta a New York e si è formata in lingua inglese, con cui ha esordito come narratrice. In un secondo momento per studi ha scoperto l’Italia e la lingua italiana, l’ha studiata, si è trasferita e ha iniziato a scrivere in italiano. È un percorso peculiare che si riflette sulla sua scrittura ed è in grado di mettere in evidenza le componenti affettive ed identitarie di una lingua e quanto questa sia – va da sé – un prisma con il quale si comprende e si vive la propria personale relazione con il mondo. Lahiri ha già pubblicato altri libri in italiano che orbitano attorno a questa suggestione.
In Racconti romani raccoglie testi già pubblicati in riviste e inediti; il titolo è un omaggio al libro di racconti omonimo di Moravia, capace di raccontare la società romana del dopoguerra. Come Moravia, Lahiri si addentra nelle classi sociali più disparate, posa la sua lucidità narrativa sia sugli ambienti borghesi e colti – e con netta predilezione – su quelli più umili, senza cadere mai nell’esotismo da borgata post-pasoliniana. Al centro della raccolta come una cesura, che ha tutto il carattere di una metonimia, ci sono le brevi storie di La scalinata, nelle quali, a partire da un’unità di luogo, diverse storie si intrecciano. Anche qui, come nelle storie più corpose, la scrittrice va a fondo con le vite che abbozza con una lingua lieve e luminosa in grado di ricostruire la rete di emozioni che risiede in un luogo e di fare emergere un piccolo affresco di una vita con pochi semplici tratti.
Sono racconti uniti dalla dimensione spaziale comune, siamo a Roma; eppure la città non è presente come entità topografica. Al contrario è un contenitore che genera ambiguità: luogo ideale da cui non si riesce a rimanere lontano capace di esercitare forte attrazione, ma soprattutto spazio ostile e respingente per la maggior parte dei protagonisti, i quali – salvo poche eccezioni – sono stranieri e vivono lo spazio sospesi tra estraneità e possibilità di sentirsi in un luogo che possa essere ascrivibile al campo semantico-affettivo della casa. Ed è forse a partire da questa amara costatazione che nelle storie raccontate è assente una precisa caratterizzazione topografica: mancano i nomi propri giacché nominare implica riconoscersi affettivamente in un luogo.
Sono dunque vite sospese su una soglia: vivono a Roma ma non sentono di appartenervi.
Del resto, che si tratta di storie su una soglia, lo esplicita il titolo d’apertura della raccolta Il confine: racconto in prima persona di una bambina di famiglia non italiana che osserva una famiglia borghese in vacanza in campagna dove vive, e finisce per provare sempre più il senso di un isolamento, di una messa a bando che non può che ferirla, di cui si scoprirà nel finale la causa violenta.
Se su un confine o una soglia sono le vite raccontate, la metamorfosi – come indica la citazione da Le metamorfosi di Ovidio in apertura – è il processo difficile e irto di momenti di sconforto a cui tutti i protagonisti devono sottostare. Se vivere è cambiare stato e mutare, il migrare da un luogo all’altro è la metamorfosi contemporanea per eccellenza, trasformazione dolorosa ma necessaria non esente dall’esperienza della violenza: altro aspetto di Roma presente in quasi tutte le storie narrate che diventa un filo rosso che si dipana in parallelo alle vicende dei personaggi.
La violenza è declinata fisicamente come in Il confine e Il ritiro; altrimenti in maniera più subdola e emotivamente dolorosa: ad esempio in La riunione una professoressa straniera dal colore della pelle più scura viene insultata da una bambina in una gretta trattoria lasciando in lei sconforto, umiliazione e una tristezza che non sa arginare. In egual misura gli umili protagonisti e narratori di Case luminose e Bigliettini vengono rifiutati perché stranieri: dolore ancora più insinuante che quello fisico.
C’è una possibile fenomenologia dell’essere stranieri, in cui Lahiri sembra proiettare una forma di disincanto nel quale si può cogliere in filigrana tutto lo sconforto legato alla retorica dell’identità –vetusta e reazionaria, e, come ogni identità, troppo invadente – come se questa offra il destro per l’esclusione programmatica di chi non fa parte di questa presunta identità costruita, ponendo una domanda cruciale su cui riflettere: chi non è davvero straniero?
In Bigliettini la protagonista, una donna emigrata a Roma da molto tempo, di umili condizioni ma piena di dignità, viene offesa durante il suo lavoro in una scuola da bigliettini anonimi e ci restituisce la sensazione fisica della violenza subita:
«Ero ancora a scuola, in quel corridoio stretto, e ho avuto un senso di malessere, come un pugno leggero allo stomaco, mi è venuto quasi da piangere.»
È uno specchio deforme e amaro quello a cui queste storie ci mettono di fronte. Quello di una città – e di un’Italia – sì bella, ma anche di merda, come chiude la voce narrante di Dante Alighieri, ultimo racconto della raccolta.
Al netto di queste considerazioni sarebbe lecito credere che Racconti romani sia una riproposizione letteraria di alcuni temi già sentiti o letti su notiziari e giornali: niente di più fuorviante. Le storie raccontate, spesso in prima persona, sono di tutt’altra natura poiché Jumpha Lahiri con la sua lingua scende in profondità, racconta tagli e slabbrature, dolori, intimi pensieri e cambiamenti nel tempo dei protagonisti delle sue storie. Così in Il ritiro, dove la ragazza straniera quasi adulta che viene assaltata e colpita dai colpi di una pistola a piombini ad aria compressa da due ragazzi annoiati, all’uscita dall’ospedale riprende la sua vita e si rende conto di essere ormai cresciuta in un luogo altro da casa sua e di provare una sorta di nostalgia per un’epoca della sua vita ormai finita, e una nuova invidia nei confronti di chi attorno a lei quella vita e quella speranza la può ancora alimentare.
«Me ne sono andata, cercavo altro nella mia vita, ero felice di venire qui (a Roma n.d.r.)… Per qualche ora dopo mezzanotte questa città antica sembra appartenere solo ai giovani: un regno felice, temporaneo, del tutto esclusivo. Tra di loro, alcuni ragazzi con tratti diversi, la pelle più scura come la mia. Sono legati da una strana armonia, un’intesa notturna, gesti identici. Mi piace vederli mentre chiacchierano sparsi ma uniti da tutte le parti. Mi rasserenano a loro insaputa. Allo stesso tempo sento un dolore in mezzo al petto, come fosse uno dei pallini finiti lì dentro, e quasi muoio d’invidia.»
Le grandi qualità della scrittura di Jumpha Lahiri sono la sobrietà e la profondità – lascito anche della passione e dello studio degli autori italiani del Novecento. Nelle voci che raccontano i suoi personaggi nulla viene sprecato: tutto concorre all’evento che permette a queste vite di avere un’intima – e spesso violenta – comprensione di ciò che stanno vivendo; ed è in questi momenti che la lingua di Lahiri cesella con chiarezza e delicatezza l’angustia di un sentimento o il disvelamento di una presa di coscienza definitiva. C’è quasi pudore nel suo stile, in netta contrapposizione all’ipertrofia della parola contemporanea e postmoderna, Lahiri racconta (o lascia che si raccontino) i suoi personaggi senza dire ogni cosa, e senza pretese di totalità. Questa essenzialità, che crea buchi, non detti e lascia qualcosa di celato, permette di mettere in risalto con abilità fulminante la profonda verità che i suoi personaggi conquistano nelle loro storie. Ad esempio In Le feste di P – il racconto più corposo della raccolta insieme a Dante Alighieri – il protagonista e narratore, dopo aver fantasticato un tradimento che avrebbe potuto riscattare il suo grigiore esistenziale, nella casa di P. ormai per il suo funerale e non per una delle sue feste, comprende l’essenza di ciò che ha vissuto:
«P. a cui devo queste pagine, non è sopravvissuta. Non andrà mai a trovare i suoi figli in altri paesi, né piangerà le distanze e il tempo che passa, quella trama automatica e spietata della vita che riguarda tutti e che ci mette in ginocchio.»
Si potrebbe obiettare che le storie abbiano una prospettiva troppo binaria e schematica: gli stranieri vengono maltrattati mentre chi gravita attorno a loro non ha un vero spessore, non esiste se non come funzione narrativa, niente ci viene detto di chi compie violenza. Nondimeno la scrittrice non intende rappresentare gli abitanti di Roma e la vita a Roma oggi con esaustività sociologica, è più attenta a raccontare vite che vivono la città con difficoltà in quanto non si riconoscono in essa, si sono dovute adattare con un processo di trasformazione difficile e talvolta violento, ed è per questo motivo che i toni cupi e ombrosi sono prevalenti.
L’ultimo racconto della raccolta Dante Alighieri, il più compatto e riuscito, narra in prima persona un’intera vita: la famiglia di origine, l’infanzia negli Stati Uniti, la difficoltà di capirsi con i genitori e l’estraneità al sistema dei valori della famiglia, l’identità frammentata ma conquistata insieme ad una nuova lingua a Roma con il coraggio della scelta, la parabola universale dell’amore e della disillusione, la lucidità impietosa dell’autoanalisi. Un racconto confessione che incide il tempo e restituisce in profondità la rete di sentimenti contrastanti di ogni esistenza dove permane il già citato dolore della metamorfosi «Anima migrabonda, nessuno ti aspetta dentro casa». Partendo da un ricordo d’infanzia legato al nome di Dante Alighieri ricostruisce tutta una vita straordinaria che non si avvera, capace di andare a fondo e suscitare una vera pietas catartica; pure noi, dopotutto, siamo anche quel fallimento: sono tali momenti di chiarezza, vere e proprie epifanie che raccontano con straordinaria reticenza e salvaguardia di parole uno squarcio di possibile verità delle vite di Racconti romani.
In copertina Jhuma Lahiri (credits io Donna)