Nel 1999, Interlinea pubblicava un progetto che assomiglia a una specie di grande gioco del telefono: si prende una poesia, la si fa tradurre in varie lingue in maniera decontestualizzata (senza dire chi è l’autore) e, dopo una serie di trasferimenti da lingua a lingua, la si ritraduce in quella di partenza, guardando cosa è cambiato. Quel libro prende il nome di Poesia travestita e parte da un’idea di Montale, suggerita nel 1978 a Maria Corti, che lo realizzerà davvero solo dopo la morte del poeta, avvenuta nel 1981.
Questo libro è stato, per un collegamento che inizialmente forse appare come assurdo, la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho letto circa le scelte che ci sono dietro la nuova edizione e traduzione dell’Odissea omerica di Blackie (2022).
L’esperimento montaliano, certamente curioso, permette una serie di riflessioni sul gesto della traduzione: «forse la grande poesia riserva delle sorprese; forse la voce del poeta all’apparenza rimane viva e sopravanza il lungo intervallo del brusio traduttorio, ma non passa impunemente per le vie illusorie dell’altrui codifica», scriveva Corti nella Premessa del volume.
E questo ha, in un certo senso, molto a che vedere con la nuova traduzione di Daniel Russo per Blackie, perché essa prende le mosse da una versione in inglese e in prosa del testo omerico, quella di Samuel Butler: una maniera certamente poco fedele all’originale parola greca, un’«eresia», come si legge nel volume. E d’altronde, «perché no? In fondo i classici sono di tutti e ognuno li legge come preferisce».
L’obiettivo dichiaratamente ricercato della casa editrice è quello di «rivivere le storie di Ulisse e Penelope e percepire quanto siano state e siano tuttora presenti nelle nostre vite», tale per cui dunque «era necessaria non tanto la versione filologicamente più accurata, quanto quella che, anche a rischio di essere meno letterale, fosse più efficace dal punto di vista del racconto». Da qui, allora, la scelta di tradurre non a partire dai versi in greco, bensì dalla suddetta versione di Butler, che, per come riportato dall’editore, è stata definita da Borges come «la più fedele» delle versioni omeriche quanto alla resa dell’essenza del racconto originale.
Questa affermazione borgesiana apparentemente provocatoria va però contestualizzata: anzitutto, Borges aveva un’idea di testo definitivo che si discosta da quello solitamente attuale – dove ogni sforzo del traduttore è improntato alla resa del testo nella maniera più fedele possibile all’originale – laddove per l’autore argentino «il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza». La traduzione allora non potrebbe essere inferiore al testo tradotto, perché i testi, per la loro natura intrinseca, sarebbero automaticamente tutti allo stesso livello.
A partire da ciò, egli porta avanti un discorso intorno alle opere omeriche, con la premessa che, non conoscendo il greco, non può dunque fruire dell’opera nella sua prima versione. Lungi dall’essere un problema per lui, Borges vede un sostanziale vantaggio nel suo non poter leggere l’Odissea in greco, e al contempo nel poter leggere una gran quantità di traduzioni del testo.
Scrive Sergio Waisman, riportando proprio la visione borgesiana:
«Tutti i testi sono mobili, è impossibile sapere cosa significhi l’originale perché non è possibile separare nessun testo dal suo contesto. Non è possibile separare i testi dal linguaggio e dal modo in cui il linguaggio comunica all’interno del tempo e dello spazio in cui viene utilizzato. Anzi, è proprio nel tentativo di effettuare tale separazione, nello spazio e nella tensione tra che «cosa appartiene al poeta e che cosa appartiene al linguaggio» che si creano le potenzialità e si aprono le porte alle numerose e differenti versioni omeriche.»
Chiarite le premesse e svanita l’indignazione (si spera) per questa versione filologicamente scorretta, conta allora evidenziare come il fine prefissato dall’editore sia effettivamente raggiunto anche e soprattutto grazie alla scelta di traduzione: si pensi, quale persona non studiosa del greco e non direttamente interessata al mondo letterario potrebbe mai essere invogliata alla lettura delle opere omeriche servendosi di un’edizione che riporta una versione poco scorrevole (e con un carattere troppo piccolo)? Il volume proposto infatti non solo riporta un testo dalla facile godibilità, ma è anche esteticamente molto bello, arricchito com’è dalle illustrazioni di un celebre fumettista spagnolo, Calpurnio, che «è riuscito a ricondurre al linguaggio visuale contemporaneo una tradizione che percorre un lunghissimo arco temporale, dalla ceramica attica all’opera di Marc Chagall».
E che non sfugga l’aspetto più rilevante di questa operazione, il motore della sua stessa nascita: e cioè che un libro racconta anzitutto una storia. Prima di essere un contenitore di valori, di significati, di messaggi, può (e deve) essere fruito come una storia, che possibilmente porti al lettore, o all’ascoltatore, un certo grado di intrattenimento. Le storie sono una cosa serissima, e non necessitano alcun altro motivo per fruirne. Poi, certo, c’è anche dell’altro, e fortunatamente c’è dell’altro. La letteratura è riuscita a essere grande anche grazie a ciò che c’è di altro; questo altro è il motivo per cui è possibile riempire pagine su pagine di metaletteratura, per cui è possibile portare avanti le proprie speculazioni, personali o condivise; ma sempre da una storia si parte.
Tutte le persone innamorate dei libri – o lettori forti, se vogliamo parlarne in termini meno retorici – sanno che i classici non sono per forza oggetti con le pagine dall’utilizzo noioso che servono a riempire i buchi nella libreria, nella peggiore delle ipotesi a fare bella figura con gli amici, e che possono essere anche delle bellissime storie. Ma i non lettori?
La nuova edizione dell’Odissea di Blackie, che inaugura la collana dall’emblematico titolo Classici liberati, vuole collocarsi esattamente al centro di questo interrogativo, in questo vuoto, e si propone di riportare sugli scaffali delle case un’Odissea che sia per tutti e che sia davvero letta, con la convinzione che chiunque possa godere di una storia così movimentata come quella del nostos, il ritorno, di Ulisse.
«Per questo motivo a Blackie Edizioni abbiamo deciso di ripubblicare alcuni grandi classici, a modo nostro. Liberati dalla falsa (e dannosa) patina di noia che li avvolge, dalla complessità dell’accademia. Per renderli alla portata di tutti i lettori, offrendo loro l’immenso piacere di scoprire questi testi grandiosi. Affrontati come le pietre miliari che sono, ma senza l’ansia di chi si approccia a totem troppo alti e incombenti.»
La letteratura non è per pochi eletti, quella dei classici men che meno. E se per un lettore è fin troppo semplice dire che la patina di noia non è parte integrante della fruizione del classico, che esso non è per forza un macigno obbligatorio, si spera che anche per tutti gli altri possa diventare così.
Non è un caso che il volume sia corredato di una serie di riscritture, di tipo completamente diverso, a testimonianza di come una storia possa cambiare il mondo, nel senso di influenzarlo, e di quanto lontano possa propagarsi il suo raggio di influenza: si hanno due scritture dal punto di vista di Penelope con Dorothy Parker e Margaret Atwood, e in più tre versioni brevissime con un testo per musica di Nick Cave & The Bad Seeds, una prosa breve di Augusto Monterroso e un testo poetico di Gozzano.
Sul valore del classico, sul perché sia necessario che l’umanità non perda un bagaglio simile, sarebbe troppo difficile interrogarsi. Forse si può dire che esso vada a riconoscere l’universalità della letteratura e dei sentimenti da essa descritti, permettendo di specchiarci nelle vite che non sono le nostre, o che erano le nostre più di duemila anni fa (d’altronde, cosa c’è di più universale di una moglie che non si rassegna al ritorno mancato dalla guerra del marito, che continua a sperare, in cuor suo, che arriverà, e che si tratta solo di aspettarlo? Che è, anzi, una sensazione orribilmente attuale, in un mondo dove le guerre non hanno mai smesso di esistere). Quel che è certo è che non può esserci niente di noioso nel riconoscersi nell’altro, e comunque, anche nel mancato riconoscimento, non può esserci niente di noioso nel leggere una bella storia, per il semplice gusto di farlo.
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Copertina: Tbel Abuseridze tramite Unsplash