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Le ali sono infinite ma la crisalide è ancora chiusa. Sulle opere mondo Lo splendore e Il libro azzurro



La lettura dell’interessante articolo di Alberto Ravasio sul massimalismo fragile e sulle opere mondo nella recente letteratura italiana mi ha spinto, d’impeto, a scrivere per colmare una sua apparente lacuna.
La lacuna è apparente, come la mia integrazione, perché scrivo di un’altra opera mondo della nostra letteratura, che però, a rigore, non esiste ancora.
Eppure, per ragioni di contiguità e opposizione, per il semplice fatto di entrare naturalmente in dialogo con le analisi e i modelli proposti da Ravasio, pur non ancora venuta alla luce (letteralmente), quest’opera va a collocarsi accanto alle tre scandagliate, come il quarto pezzo di un puzzle per bambini che abbia la forma di un quadrato.

Ravasio coglie, esalta, espone, stigmatizza l’albagia scientifica di Massimiliano Parente, con la sua Trilogia dell’inumano (La nave di Teseo); la sfrenata e parzialmente dissociata ubiquità poetica di Giuseppe Genna in History (Mondadori) – forse, più esattamente, nel continuum del suo lavoro; il titanismo apocalittico ma zoppicante di Antonio Moresco nella Trilogia degli increati (Mondadori); e li mette a confronto con alcuni modelli quali, soprattutto, L’uomo senza qualità di Musil e la Divina commedia di Dante.

Lo splendore rifugge dall’albagia scientifica e ne smonta i presupposti; il suo stile rotondo, screziato e sonante, è il contrario della lingua frantumata della dissociazione contemporanea; la sua filosofia preferisce ai titanismi e agli agonismi letterari una lenta e sapiente cucina, dove al fondo del paiolo si depositino antichi misteri, seguendo la tradizione, intesa anche come tradimento, cioè tradire: trasmettere, tramandare, portare alla luce ciò che è nascosto. Ossia narrare.

Per quanto riguarda i modelli, invece, Veronica Leffe ha realizzato un intenso ritratto di Robert Musil, autore dell’Uomo senza qualità, e Pier Paolo di Mino lo indica tra gli spiriti eletti (spiriti magni, per la precisione) che presiedono al suo lavoro (insieme a Herman Melville e Hermann Broch, per fare altri due esempi); mentre di Dante evoca spesso, come riferimento, l’amore materiale e l’esattezza descrittiva.

E così, quasi di soppiatto, abbiamo presentato il titolo e gli autori di un’opera che non c’è. Lo splendore, di Pier Paolo di Mino, scrittore, e Veronica Leffe, illustratrice. Il primo volume del romanzo, primo di sette, dovrebbe vedere la luce nel 2024. E saranno circa 800 pagine. Un importante editore sta lavorando alla pubblicazione.
Riassumere la trama dello Splendore è quasi impossibile. Nelle parole dell’autore, però «tutto sommato la storia è semplice. Il protagonista si chiama Hans Doré e lo incontriamo prima della nascita, che avverrà alla periferia di Berlino, dentro una baracca, al freddo e al gelo; una condizione sufficiente per soddisfare una fantasia religiosa o un mito: quello dello Zadik, colui che salva il mondo senza saperlo».

In ossequio alla filosofia di Eraclito, che nega al mondo e agli enti sostanza, al di là della sottile rete di relazioni che li avvince, la vicenda di Hans Doré è narrata attraverso quelle di tutti coloro che avranno a che fare in qualche modo con lui e la sua vita: formandola, determinandola, indirizzandola; sospingendolo, infine, a diventare o a non diventare lo Zadik.
Tra i soggetti che influenzano e ispirano la vita di Hans Doré ci sono anche tre libri: Il re degli zingari e Acque morte; poi un libro senza titolo,  dalla copertina azzurra, che ha la bizzarra qualità di mutare davanti ad ogni lettore, forse il più importante dei tre.
Sebbene si tratti di libri che esistono solo all’interno del romanzo, di Mino li ha resi concreti: ha già scritto sia Acque morte sia Il re degli zingari (e saranno forse da pubblicare, un giorno); del Libro azzurro, quello che muta, il più fantastico, è addirittura iniziata la pubblicazione, in forma artigianale e fuori dai circuiti editoriali.

È il primo elemento da tenere a mente. La lunga gestazione (cercata o accidentale) di quest’opera fuori dai circuiti editoriali ha un valore di testimonianza: testimonia del persistere del lavoro letterario e della letteratura stessa, prima e al di là del mercato editoriale. Qualcosa di inaudito, oggi.

Comunque sia andata, credo che a un certo punto il romanzo, come un genio chiuso troppo a lungo nella lampada, sia tracimato fuori e abbia iniziato a colare nel mondo: a colorarlo. Del Libro azzurro esiste già il primo capitolo, in più versioni (differenti volumi, che si possono rintracciare e acquistare): Ma l’amor mio non muore; esiste un intermezzo: La profezia di Sakina; è in corso di pubblicazione, per ora solo in rete, un altro capitolo: I semi di Giangagava.

Inoltre, da qualche anno, vengono pubblicate, sempre in rete, sul sito Il libro azzurro, quotidianamente, delle note di lavorazione, quella che potremmo definire una grande officina filosofica. Si tratta di note al romanzo Lo splendore oppure sono note (come sembrerebbe) al Libro azzurro? Bisogna essere molto chiari sul gioco innescato.
Il Libro azzurro, questo libro mutevole, che già in parte possiamo leggere, è lo specchio del romanzo che sarà pubblicato. Nel Libro azzurro già leggiamo, allo specchio, Lo splendore. Uno specchio, per giunta, in frantumi: una scelta che forse deve qualcosa all’estetica del frammento.
Immagino la domanda: perché dovremmo leggere un romanzo, un lungo, complesso e articolato romanzo, nei frantumi di uno specchio? Aspettiamo la pubblicazione di quello vero e lo leggeremo.
Immagino anche il sorriso di Borges: qual è quello vero?

Sia nei capitoli pubblicati del Libro Azzurro, sia nelle note di lavorazione, vige la stessa legge: a ogni testo corrisponde un’immagine, a cura di Veronica Leffe, che le disegna, dipinge o le rintraccia nel nostro comune bagaglio culturale, andando indietro nei secoli e nei millenni.

Il libro azzurro

Non si tratta di una scelta casuale né decorativa. Dicono le note – e io semplifico molto – che quando si descrive un oggetto o si descrive il suo comportamento, si perde l’oggetto. Se descriviamo una mela e la forza di gravità che la governa, saremo in grado di fare predizioni sul suo movimento ma avremo perso la mela. Nel momento in cui lo tocchiamo, l’oggetto fugge. L’immagine è il racconto che ne facciamo e la parola coincide con l’immagine. Il mondo è un gioco di parole e immagini e, cambiando le parole, si cambia il mondo. Con maggior precisione, in un nota:

«La poesia, per i greci, è l’azione volta a trovare la realtà, producendola; infatti, la realtà, che è una rappresentazione, può essere trovata solo in un atto produttivo in cui la parola e il pensiero coincidono con un’immagine».

E questa dunque è l’immaginazione.

Il libro azzurro

L’ordalia dell’immaginazione, destinata ogni volta a rinascere, è anche il tema dei racconti di Ma l’amor mio non muore, primo capitolo del Libro azzurro: trenta storie di donne in rivolta, da Eva a Josephine Baker, e trenta meravigliosi disegni, sotto forma di una lezione cabalistica sul percorso che compie l’anima per liberarsi dal possesso delle cose che ha desiderato.

Voglio tornare un’ultima volta alle note di lavorazione e riportare qui una delle più belle e rapinose. Una vera e propria chiamata alle armi (metaforiche) degli spiriti affini:

«Il libro azzurro, come forse ogni libro, è una biblioteca potenziale. Una biblioteca può essere un catalogo di libri oppure una catena di pensieri. Quei pensieri, direbbe Heidegger, che comunicano tra di loro, travalicando i limiti finalmente vinti del tempo e dello spazio così come i confini imposti da questa chimerica fantasia dell’individuo, parlando nelle menti di persone così vicine e così lontane. Pensieri notturni, spesso. Pensieri consumati lentamente, con piacere e dolore febbrile, in celle monacali, in galere buie, in camere postribolari, in stive di navi o nel fondo di carovane dirette non importa dove. Pensieri non necessariamente notturni, che si sono impossessati della mente, in un bagliore o in una folgore, davanti all’evanescenza irresistibile delle cose, quando questa rimanda a non si sa quale vertiginosa e spaventosa certezza circa il manifesto segreto della realtà. Pensieri, quindi, che confondono la notte e il giorno con un tremore in cui si mescolano il piacere e la sofferenza. Questi pensieri, del resto, hanno la cadenza degli uccelli, e i numeri che compongono il loro metro si misurano con quelli che regolano il giro delle stelle, e la loro esattezza, anche se ci spinge in un abisso, ci impone una fedeltà alla quale difficilmente ci si può sottrarre. A molti, o, forse, a tutti, a tutti coloro che si sono dovuti ritrovare, al di là del tempo e dello spazio e di sé stessi, in quelle celle monacali, in quelle galere buie, in quelle camere postribolari, in quelle stive di navi o nel fondo di carovane dirette non importa dove, a tutti quelli che si sono ritrovati davanti all’evanescenza irresistibile delle cose, è capitato, una volta o l’altra, di maledire quei pensieri. Anche questo è vero. Eppure, alla fine, come arresi a un voto che si deve alla bellezza e all’anima e all’amore e all’immaginazione, tutti si sottomettono al lavoro lungo e interminabile, faticoso e senza ricompensa, di comporre e riporre quei pensieri. C’è un luogo dove farlo. C’è e non c’è. È una biblioteca potenziale. Somiglia, è ovvio, a un labirinto. Ma c’è chi vi vede anche la macchina portentosa di una catalogazione terminale concepita per la fine dei tempi. O, ancora, i penetrali proibiti di un tempio spaventoso: Babele, Ninive, Alessandria. Del resto, guardando meglio, vi si vede anche un deserto.»

Mi piacerebbe chiudere lasciando tutto qui, sospeso all’incanto di questa lunga citazione. Ancora qualche riga, invece.

Il libro azzurro

Nella pubblicazione quotidiana delle note, gli autori infilano anche dei disegni che tracciano insieme, in due. Ispirati a un vecchio gioco surrealista, sono dei cadavre exquis: nel comporli Pier Paolo di Mino e Veronica Leffe non sanno ciascuno cosa disegnerà l’altro. Ne vengono fuori strane figure metamorfiche. Stagliate contro un fondo nero, negate a ogni significato definito, mutevoli come il libro di cui fanno parte, sono, ognuna, l’immagine più efficace dell’opera intera: ne sono anche l’unico confine, nuove costellazioni di un nuovo universo. Raccolgono forse e solidificano i frammenti di immagine che vaporano dalle menti di chi legge.

Sotto questa volta, le note al Libro azzurro e allo Splendore continueranno ad avvicendarsi, quotidianamente, e sarà sempre un girare e rigirare vecchie storie, raccontare e rovesciare antichi miti, e poi rovesciarli di nuovo, cercandone l’origine, trovandola nella fine, gettando tutto nel crogiuolo e cuocendo, cuocendo, finché al fondo non si depositi una scaglia abbagliante.

Tento anche io un’immagine, andando al di là del gioco dello specchio: una farfalla immensa, grande come il tutto, e insieme la sua crisalide. Misteriosamente, la crisalide è ancora chiusa ma le ali sono spalancate, variopinte e screziate, disegnano un labirinto in cui ci si può solo perdere (e lasciamo stare se al centro si incontrerà il Minotauro o Dioniso). Le ali sono infinite ma la crisalide è ancora chiusa. Quelle ali sono le note di lavorazione, le parti di libri fittizi già stampate e rese pubbliche. La crisalide è il romanzo pronto per la pubblicazione. Quando la crisalide sarà aperta, il romanzo pubblicato, l’opera cesserà di essere senza fine. Ne potremo saggiare i limiti: esplorare finalmente, fino all’ultimo, tutti gli antri del labirinto. Forse, per tornare all’articolo di Ravasio, da cui ho preso le mosse, ne intuiremo anche le fragilità. Ma è sicuro che, quanto a massimalismo letterario, sarà difficile sorpassarla.

Immagini: https://www.libroazzurro.it/

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