Tash Aw è uno scrittore sino-malese: in occasione della riedizione del suo libro, Stranieri su un molo, uscito per Add editore nella traduzione di Martina Renata Prosperi, sono stati aggiunti alcuni capitoli inediti. Il focus di questa intervista ruota intorno al sentimento migratorio, al centro del suo “memoir”: ho cercato di indagare le asperità insite nell’atto della migrazione, l’indifferenza e la disparità che la migrazione crea e, infine, la fascinazione subita dalla modernità come illusoria possibilità di riscatto. Da Stranieri su un molo inizia l’intervista con Tash Aw.
Quando lei racconta la conversazione avuta con suo padre, quando sottolinea la sua eccezionalità dettata dal fatto che lasciar trapelare le proprie emozioni è ancora un tabù, evidenzia il sentimento di vergogna che è trasversale. Investe la sfera dell’intimità, il proprio patrimonio culturale, la storia politica del Paese e si traduce in un’asperità il cui lato nascosto è la povertà. La vergogna è spesso intesa come un sinonimo di colpa. Intravede questo significato latente nell’evoluzione della storia del suo Paese di origine? E se sì, qual è il significato che assume per lei il termine colpa?
La vergogna e il senso di colpa sono per me due sentimenti distinti, sia a livello personale che nazionale. Nel caso del mio Paese di origine, ciò che plasma la nostra storia e le nostre aspirazioni per il futuro è la vergogna, non il senso di colpa: la vergogna di essere stato un Paese colonizzato e il senso di impotenza che è alla base di quella vergogna. La tua storia è stata scritta da qualcun altro, le tue storie raccontate da persone che vengono da altre terre lontane: questo spiega perché non vogliamo confrontarci con il passato, perché quando guardiamo indietro alla nostra storia vediamo versioni di noi stessi che erano controllati da paesi occidentali. Spiega anche perché ci siamo confrontati con la modernità in modo particolarmente intenso, con ogni sorta di ostentati simboli di potere che cercano di rivendicare un senso di potere e di agire su noi stessi e di cancellare questo senso di vergogna. Le città asiatiche sono piene di totem di questo tipo di recupero della storia: enormi grattacieli, centri commerciali che vendono beni di lusso, ogni tipo di comodità ipermoderna. Queste sono ostentate dimostrazioni di fiducia che dicono: abbiamo il potere di comprare tutto ciò che vogliamo, di consumare tutto ciò che vogliamo. Ma qualsiasi dimostrazione di eccessiva sicurezza tradisce un profondo disagio, che in questo caso parla di vergogna sepolta e irrisolta. In questo contesto, la colpa è qualcosa di diverso. È un sottoprodotto della vergogna. Nasce proprio da questo rapido, ostentato accumulo di ricchezza negli ultimi trenta o quarant’anni, che ha creato enormi divisioni nella società. Alcune persone della mia età, nate poco dopo la caduta del colonialismo e che hanno vissuto da bambini quest’epoca di incredibili cambiamenti, sono cresciute da una parte di questa divisione e ora si trovano dall’altra. Siamo nati poveri ma facevamo parte dei pochi fortunati che hanno potuto ottenere un’istruzione e diventare borghesi. Solo una generazione dopo, questa trasformazione è diventata impossibile, quindi le persone svantaggiate probabilmente lo rimarranno per sempre, mentre i ricchi consolidano la loro ricchezza. Per quei pochi di noi che hanno lasciato una classe per appartenere a un’altra – quello che in Francia si chiama transfuge de classe, o profughi di classe – la vita offre due opzioni: quella della negazione o quella della colpa. Se non vuoi vivere nella negazione, devi vivere con il senso di colpa.
Una delle riflessioni presenti nel suo libro e che mi atterrisce è questa virata politica e culturale, penso generale, indirizzata alla cancellazione del passato. Lei scrive: «Ora che siamo ricchi…» Essere moderni significa staccarsi dal passato e vivere solo nel presente. Si celebrano gli anni dei grandi imperi, ma la storia più recente, più dolorosa, quella che formerà le identità o le distruggerà, viene accantonata in luogo di un nuovo racconto, più glorificante. Qual è, per lei, l’aspetto più spaventoso di un’operazione culturale di questo tipo?
La cosa più spaventosa per me è il pensiero che la modernità diventi una nozione priva di significato, unidimensionale e artificiale. Possiamo essere veramente moderni solo se il nostro senso del futuro è legato a ciò che eravamo in passato. Non puoi rimodellare te stesso se hai dimenticato quello che eri. La felicità del futuro è legata al dolore del passato, fanno parte della stessa evoluzione. Se perdiamo la memoria del nostro passato culturale e politico, continueremo a fare gli stessi errori politici, le scelte sbagliate per la società in generale – ed è quello che stiamo vedendo oggi in tutto il mondo, specialmente in Asia. Come può un Paese come le Filippine eleggere il figlio di un dittatore che solo di recente è stato rovesciato a causa delle sofferenze che ha inflitto al suo popolo? Succede anche in Occidente. In un Paese come la Gran Bretagna di oggi, che vuole dimenticare il suo passato coloniale, a causa della vergogna e del senso di colpa, è proprio questa cancellazione del dolore che porta a politiche irrazionali e francamente illusorie sull’immigrazione e sulla sovranità.
A proposito di storia e memoria, Juan Gabriel Vásquez, in un articolo dal titolo La memoria perfezionata, scrive: «Talvolta ho l’impressione che l’umanità si divida in due categorie: quelli che pensano che ricordare sia inutile e quelli che pensano che sia pericoloso». Lei è d’accordo?
Sì, certo, sono d’accordo con Juan Gabriel e scrivo molto a proposito di questa tendenza nel mio libro. Trattiamo i nostri ricordi come una scultura, li modelliamo e li sminuzziamo finché non presentano una bella forma che ci piace. Crediamo che la memoria sia come ogni altra cosa nella nostra vita, la sentiamo suscettibile di essere perfezionata. A volte, nelle conversazioni con i miei genitori, che hanno vissuto un’estrema povertà e cambiamenti sociali e politici molto instabili e violenti, capisco davvero il loro istinto a dimenticare. Pensano che la memoria sia inutile e pericolosa, e posso capire perché. Il problema è che per la maggior parte di noi la cancellazione totale della memoria è impossibile.
Un aspetto su cui riflette accuratamente, partendo da un dato autobiografico, è l’accessibilità all’istruzione da parte dei giovani del suo Paese. Se a tutti viene data la possibilità di sostenere l’esame di stato, sarà il suo esito a mettere in evidenza le disparità sociali. Ma è anche l’istruzione che crea un primo flusso migratorio verso Paesi esteri in cui l’offerta formativa è più allettante, creando, alla lunga, uno scompenso interno. Quanto dovrebbe essere ripensato il sistema scolastico, per permettere agli studenti di partecipare attivamente al cambiamento socio-economico del proprio Paese?
L’istruzione pubblica è di un livello così basso che fornisce alla maggior parte delle persone pochissime competenze necessarie per trasferirsi in altri Paesi, e la verità è che la stragrande maggioranza dei migranti asiatici in altri Paesi sono stati storicamente, e sono tuttora, lavoratori non qualificati che si trasferiscono perché non hanno prospettive nel loro Paese. Si trasferiscono nei Paesi più ricchi, solitamente occidentali, per lavorare nelle fabbriche, nelle cucine dei ristoranti e così via, spesso in condizioni pericolose, perché disperati. L’ironia è che quelle persone di solito non beneficiano di alcun tipo di formazione in quei Paesi stranieri più ricchi. Lo squilibrio interno è causato dalla rapida trasformazione della maggior parte dei Paesi asiatici negli ultimi decenni e dall’incredibile ascesa della borghesia asiatica che ha creato il proprio sistema di istruzione privata, il che significa che l’istruzione statale è peggiore che mai. Non è solo il sistema scolastico che va ripensato, è l’intera configurazione della società.
Quale pensa sia la vera eredità, lasciata ai cinesi, della Rivoluzione Culturale?
È un argomento troppo vasto per un’intervista di questo tipo, ma in breve, penso che la vera eredità della Rivoluzione Culturale sia semplicemente la Cina che vediamo oggi, sotto l’attuale regime.
La malleabilità della sua identità, essere straniero e assumere i connotati di uno del posto. Lei scrive che questo ha a che fare, forse, con il desiderio che tutti ci somiglino, che lo straniero sia qualcuno che possiamo capire. E l’avvilisce pensare a coloro che sono disposti a rinunciare a tutto il bagaglio culturale pur di integrarsi. Ribadisce come il Paese di origine e il dialetto siano aspetti che non considerano di morire nelle nuove terre in cui abiteranno. Non pensa però che sia esattamente questo che viene chiesto a chi migra? Dimenticare chi si è in luogo di una adesione totale? E che questo sia in realtà una mistificazione, perché in realtà ad ognuno viene offerto di «sbirciare un miraggio», come scrive Djamilia Pereira de Almeida, finendo per restare invisibili?
Ovviamente è esattamente ciò che viene chiesto a quelli di noi che migrano: non devi davvero farmi queste domande. È ovvio che sono d’accordo con questi sentimenti. L’ho sperimentato fin da bambino, quando non ero nemmeno coinvolto nella scelta di migrare. Ma questa è una domanda che i Paesi occidentali in particolare devono considerare: ti rendi conto di cosa stai chiedendo alle persone di fare quando chiedi loro di “integrarsi”. Cosa significa anche “integrazione”? È un processo estenuante, doversi sempre adattare solo per essere trascurato. Un altro concetto che trovo sconcertante è l’idea di “autenticità”. Per gli europei bianchi progressisti che dicono, in modo comprensivo ed empatico: oh ma non dovresti rinunciare alla tua autenticità, dovresti rimanere quello che sei, glorioso nella tua cultura nativa, e ricordare chi sei, io rispondo sempre: perché non cerchi di metterti al mio posto, perché non cerchi di sopravvivere in un Paese straniero che nel migliore dei casi ti è indifferente, nel peggiore apertamente ostile? Ammiro il sentimento, ma quando hai il lusso di appartenere alla classe sociale e razziale dominante nel tuo Paese, hai anche il lusso di conservare la tua identità culturale. Puoi vedere quanto sia difficile per gli immigrati. Le persone vogliono che ci integriamo, ma vogliono anche che siamo “autentici”. È come se fossimo responsabili di soddisfare i bisogni culturali occidentali.
Leggendo il suo libro, ho pensato che le sue radici risiedono di più nella storia dei suoi antenati che in un luogo fisico vero e proprio. È così?
Per molti anni ho pensato che le mie radici fossero nello spazio fisico della Malesia. Anche adesso reagisco d’istinto al suo paesaggio, alla luce, c’è un’intimità che non godo altrove. Ma negli anni ho capito che le radici non sono fisiche, sono immaginarie. L’atto dell’immigrazione crea una dinamica che tutti presumono essere l’opposto delle radici, ma in realtà creano una storia che è altrettanto concreta quanto la storia di un singolo luogo. Nel corso della mia vita di letture e scrittura, sono stato affascinato dal lavoro degli scrittori ebreo-italiani. Primo Levi, ovviamente, ma anche scrittori come Natalia Ginzburg e Giorgio Bassani, le cui esperienze in un modo strano ho sentito rispecchiare le mie. Se prendi ad esempio uno scrittore come Bassani, il cui lavoro è così legato a Ferrara quanto il mio lo è alla Malesia – il senso di esclusione crea appartenenza a uno spazio che è più grande della sola Ferrara o anche dell’Italia, uno spazio che nasce da un storia condivisa con altre persone perseguitate, che hanno dovuto lottare per crearsi un’identità in un luogo che considerano casa, ma che le rifiuta.
In copertina, foto di Nicholas Rean su Unsplash