In un pomeriggio uggioso di dicembre ho appuntamento su meet con Mattia Signorini. Ho da poco finito di leggere il suo romanzo più recente, uscito per Feltrinelli qualche settimana fa, che mi ha lasciato un’impressione profonda. È un piccolo, perfetto romanzo di guerra, che racconta un attimo sospeso sul Natale del 1914: quando la guerra si fermò, solo per un tempo minuscolo, nelle trincee intorno a Ypres, in Belgio. È un romanzo di guerra che parla di amicizie, di ragazzi di un altro secolo, del baluginare di una possibilità di pace.
Signorini è indubitabilmente uno scrittore di successo. A Rovigo, la sua città, dirige un festival che negli anni è cresciuto moltissimo, Rovigoracconta, e una scuola di scrittura, la Palomar, da cui escono, anno dopo anno, diversi esordi particolarmente interessanti. «La scuola è un po’ come il cammino di Santiago – mi dice – arrivano tante persone che vogliono scrivere, ognuna ha qualche ragione sua, qualcosa di rotto che vuole riparare. Io amo sentire che c’è una potenzialità, un fuoco in quello che ne viene fuori». Signorini stesso ha esordito giovane, nel 2007, con Lontano da ogni cosa (Salani), un primo romanzo accolto con affetto e ammirazione. Una piccola pace è il suo sesto libro, eppure in un certo senso è il primo.
Che posto occupa secondo te questo libro nella tua carriera? Mi raccontavi che hai iniziato a scriverlo con una gran lentezza.
Nella mia vita ho scritto dei libri molto realistici e dei libri come questo: che parte da una situazione reale ma, direi, di un realismo spostato un centimetro più in là, con qualche lampo di magia. Il mio autore italiano di riferimento, quello che amo di più fin dall’adolescenza, è Buzzati; sono sempre stato travolto dal suo realismo magico. C’è, nella realtà, una parte invisibile che qualcuno vede e qualcuno lascia correre: ma questo invisibile va raccontato, in qualche modo. Gli unici libri che forse terrei sono quelli che ho scritto da questa prospettiva: Le fragili attese, La sinfonia del tempo breve e quest’ultimo, Una piccola pace. Ogni tanto, invece, ho vagabondato, forse sospinto da cose che vedevo, cose che pubblicavano gli altri. Quando si esordisce giovani, e tu lo sai, si fa esperienza in pubblico, quindi si sbaglia in pubblico, anche. Oggi so che c’è una strada, un modo di guardare, che è il mio. Questo libro l’ho scritto senza dirlo a nessuno, come succede con il primo romanzo, quando scrivi e non hai aspettative. Ho un bellissimo rapporto con il mio editore [Feltrinelli], però avevo bisogno di pensare al libro, non al suo destino. Alla vigilia della pubblicazione ho chiesto alla responsabile della narrativa italiana: se ti avessi detto che volevo raccontare la guerra, tu ti saresti aspettata un libro così? Lei mi ha risposto: se devo essere sincera, no; però adesso che ce l’ho in mano, vedo bene che era giusto. Abbiamo sempre paura, anche al di là dei libri e del nostro mestiere, che è quello di scriverli, di ciò che può accadere nella nostra vita; ma tutte le nostre decisioni dovremmo prenderle a prescindere da quella paura. Perché non è detto che se seguiamo tutto ciò che ci dicono gli altri, o tutto ciò che secondo loro “funziona”, quello che facciamo sarà necessariamente un successo. Io poi questo libro non volevo neanche scriverlo.
In che senso?
Nel senso che quando ho cominciato a lavorarci non avevo idea di dove potesse portarmi la storia che seguivo. Io vado ogni anno a fare deserto sull’Altopiano di Asiago: me ne sto lì quattro o cinque giorni, da solo. Da solo vuol dire senza usare il cellulare, senza telefonare, senza parlare con nessuno, se non con le persone che incontro lì; non parlo con nessuno che faccia parte della mia vita, in quei giorni. Sono anni che lo faccio, per capire chi mi manca e magari è lontano, chi mi manca ed è vicino, ma anche chi è vicino ma non mi manca poi tanto. Insomma, nell’estate del 2019 mi trovavo in una vallata in cui c’erano dei cunicoli larghi un metro: trincee della prima guerra mondiale. Ho visto un cartello che mi ha colpito: c’era scritto che un certo generale aveva vinto una gran battaglia proprio lì, ed erano morti un migliaio di soldati. Ho pensato: ma i loro nomi non ci sono. Proprio in quella vallata ho incontrato un personaggio da romanzo. Un signore che era lì da solo anche lui: un professore prossimo alla pensione che fin da quando era ragazzo ogni estate gira l’Europa per cercare le trincee. Un paio di giorni dopo mi invita a cena e mi racconta un sacco di aneddoti, piccoli fatti laterali della Storia del Novecento. E alle due di notte, prima di salutarci, mi dice che secondo lui la cosa più incredibile che sia accaduta in tutto il secolo scorso è stata la tregua del Natale del 1914. Io allora, subito mi sono acceso di curiosità: com’è stato possibile che migliaia di persone si siano fermate? Chi ha dato il segnale? Lui mi ha risposto che non ne aveva idea. Della tregua di Natale si parla poco: è un aneddoto che ogni tanto ricompare in qualche trafiletto di giornale. Ho passato mesi a cercare libri, per lo più fuori catalogo, e articoli, documenti e lettere in biblioteche di mezza Europa: per fortuna sono digitalizzati, altrimenti con la pandemia che intanto era scoppiata sarebbe stato impossibile. Era diventata una piccola ossessione, volevo vedere cosa c’era dietro. Finalmente ho trovato il nome della persona che aveva fermato la guerra: ero convinto che dovesse essere un alto ufficiale, qualcuno di potente. Invece era un ragazzo di diciannove anni, di nome William Turner.
Come il pittore…
Sì! Nei mesi del lockdown è diventato in un certo senso il mio migliore amico: non ho un cane, purtroppo. E siccome vivo da solo, per tre mesi non ho visto nessuno.
Pensi che quel periodo abbia avuto un influsso sulla tua scrittura?
Da tempo mi dicevo che mi dovevo fermare un po’, ma non ero mai in grado di farlo davvero. Quand’ecco che di colpo erano finite tutte le telefonate, gli impegni, gli appuntamenti: in quei tre mesi sono stato solo con lui. La sua storia mi ha cambiato. Non la considero propriamente una storia di guerra. Secondo me è la storia di come, quando siamo privati di tutto, ci resta solo la parte più autentica di noi. Noi non eravamo in guerra, ma abbiamo sperimentato l’isolamento: siamo animali sociali e ci siamo snaturati. Insomma ho pensato che questa storia dovessero conoscerla anche altre persone.
Quindi solo allora hai capito che stavi in realtà lavorando a un libro?
Esatto! Quando ho scoperto dell’esistenza di William Turner ho pensato: sarebbe bellissimo, a livello narrativo, se ci fosse un soldato tedesco dall’altra parte che a un certo punto fa qualcosa con lui, no? Sembrava un’idea da narratore, invece poi ho scoperto che esisteva un personaggio proprio così; oltretutto, benché non famosissimo, relativamente conosciuto in Germania. È come se avessi raccolto tante palline da ping pong, i fatti storici trovati studiando questa storia: le ho messe dentro un cesto, ma per riempirlo ho dovuto aggiungere della sabbia che colmasse gli interstizi tra le palline… e la sabbia, chiaramente, ce l’ho messa io, è la mia forma di realismo spostato di un centimetro più in là. Nel libro c’è tutto quel che ho imparato in quel periodo, compreso il fatto che proprio allora ho iniziato a interessarmi al minimalismo.
Mi spieghi cos’è il minimalismo?
È molto semplice: quando ci troviamo davanti a persone, situazioni, cose da comprare eccetera, possiamo porci una domanda, cioè: questa cosa, questa persona, aggiunge valore alla mia vita? Le risposte possibili sono tre: sì, no, forse. Ma forse è già no.
Leggendo il romanzo, mi pare un’influenza importante a livello stilistico: è un libro piccolo, molto essenziale, molto intenso. C’entra l’emergenza, la solitudine in cui hai iniziato questo lavoro?
Abbiamo spesso la percezione di vivere un tempo già sconfitto. Ma loro, William Turner e i suoi compagni, erano molto più sconfitti di noi, no? La guerra era iniziata ad agosto e secondo le previsioni sarebbe dovuta finire nel giro di poche settimane. Invece è durata quattro anni e rotti. In Belgio, dove si svolge questa storia, sono morte un milione di persone: erano ragazzi, è stata sterminata una generazione di ventenni, che all’inizio arrivavano al fronte con l’idea di salvare la patria, di migliorare la vita delle persone che amavano. Arrivavano, e trovavano l’orrore, e se si voltavano e scappavano venivano fucilati; l’alternativa era andare a combattere e morire combattendo, morire comunque. Erano bloccati; ecco, pensare che un ragazzo di 19 anni ha rischiato tutto, e come un’onda la sua idea di mondo, pulita, sincera, ha coinvolto decine di migliaia di persone… mi commuove.
Ma il minimalismo com’è entrato nella tua vita?
Ero una persona estremamente disordinata. Ero la persona più disordinata che conoscessi, ma a un certo punto non ce la facevo più, in tutto quel disordine. È stato guardando un video su YouTube che ho iniziato a pensare che il disordine che abbiamo dentro non lo ammettiamo mai. Poi ho letto, ho studiato. C’è un libro che parla di questo e che amo, si intitola Ama le persone, usa le cose e in Italia è pubblicato da De Agostini. Ho aperto l’armadio e messo nei sacchi i vestiti che non usavo. Venti sacchi, sono venuti fuori: e calcola che compro pochissimi vestiti. Ma è tanta, tantissima, la roba che accumuliamo. Invece non dovremmo tenere niente che non abbiamo utilizzato nell’ultimo anno.
Spero che tu non veda mai il mio armadio. Inorridiresti!
Ma lo capisco, ero così anch’io. Di tante cose ci diciamo: sono ricordi. I ricordi, però, li abbiamo già. Non c’è bisogno di tenerli nei cassetti. Il minimalismo non è una dottrina identica per tutti. Io a un certo punto mi sono ritrovato molto soddisfatto: avevo liberato la mia casa da un sacco di cose. Ma non riuscivo a disfarmi dei libri. Nelle nostre librerie abbiamo libri letti e amati, libri che non leggeremo mai e libri che abbiamo letto e non abbiamo amato.
Certo.
E a quel punto me lo sono dovuto chiedere: a cosa serve tenerli? So farò indignare molti amanti dei libri, ma il fatto è che sto cercando di crearmi una biblioteca essenziale, solo di libri che ho molto amato. Che, comunque, non sono pochi; mi piacerebbe che fosse una biblioteca in cui, quando qualcuno arriva, se trova un libro che desidera possa portarselo via.
Ma che hai fatto dei libri e dei vestiti di cui ti sei liberato? Li hai destinati a una seconda vita?
Molte cose, che erano in condizioni perfette, le ho date ad associazioni che le donano a chi ha bisogno. Ad altre ho dato una seconda vita mettendo annunci nei gruppi sui social che permettono a chi ha interesse per quel certo oggetto di venirselo a prendere. Mi piace molto l’idea che ci siano dei fili che legano fra loro le persone, e che questi fili possano passare anche attraverso gli oggetti. Avevo un vecchio orologio da parete, che non mi piaceva; ho pubblicato la foto, è venuto a prenderlo un ragazzo. Mi ha detto che la sua ragazza gli aveva mostrato la foto, e lui non poteva crederci: da anni cercava un orologio così. Mi piace pensare che nella sua nuova casa sia amato.
Il tuo è, sì, un libro sulla guerra, ma alla guerra dedica pochissime pagine: perché il vero tema sono le relazioni umane: i rapporti che si creano in un gruppo di ragazzi.
Sì, quei ragazzi sono stati spogliati di tutto e le loro sono relazioni incredibilmente profonde. Era una cosa che mi colpiva molto, leggendo le lettere di chi ha combattuto nel 1914 in Belgio. Ho trovato lettere di tanti soldati inglesi che scrivevano alle famiglie. La guerra era una tragedia, ma aveva creato uno spazio vuoto nelle loro vite, e questo spazio veniva riempito dall’intensità dei nuovi rapporti allacciati nel giro di pochissime settimane. Qualche tempo fa ho letto Niente di nuovo sul fronte occidentale. È stato quel libro a darmi un’indicazione importante: è un diario di guerra ma racconta proprio dell’umanità delle persone, dei soldati.
Hai scritto questo libro senza sapere che di lì a poco sarebbe scoppiata una guerra, molto vicino a noi… come hai vissuto questa coincidenza temporale, come la vivi ora che ci avviciniamo a un Natale che per molte persone sarà il primo Natale di guerra?
Ho finito di correggere la prima stesura del libro proprio nei giorni di fine febbraio. E mi ricordo che, rileggendo, mi sono soffermato su un passaggio che mi fatto uno strano effetto: fra il momento in cui l’avevo scritto e quello in cui l’ho riletto era arrivata la guerra, quindi la mia prospettiva era cambiata. Quando pensiamo alla guerra, pensiamo alle persone che combattono. Ma una guerra riguarda anche i civili, persone che vivevano tranquillamente. Quest’anno, con questa guerra scoppiata alle porte dell’Europa, i media ci hanno mostrato l’impatto su persone come noi, che non la scelgono e nemmeno la combattono. Come se, mentre noi parliamo, scoppiasse una bomba: e allora il nostro computer con dentro Meet e tutto il nostro lavoro, le nostre cose, perderebbero improvvisamente importanza: perché se succede una cosa del genere tu esci in strada e vai via. L’unica cosa che vuoi salvare è la tua vita, la vita di chi ami. Quando ho riletto quel passaggio alla luce delle immagini di persone che si allontanavano dalle città ucraine bombardate, senza niente, con uno zaino magari ma con i loro cani, ho pensato una cosa forse ovvia ma anche sconvolgente: siamo fatti della stessa sostanza di quei ragazzi che ho raccontato. E ho capito che nel libro volevo mostrare una persona che, anche se per una frazione minuscola di tempo, riesce a cambiare il piccolo mondo che ha intorno.
Sui social gira molto l’immagine della copertina del tuo romanzo, lo vedo citato spesso. Come ti sembra la risposta dei lettori a questo libro?
Sto ricevendo molti messaggi da chi lo ha letto. Penso che sia dovuto al fatto che l’ho scritto con una ferale sincerità. Io sono cresciuto sui libri Feltrinelli, sono felicissimo che sia uscito proprio con questo editore. Ma per me la sfida più grande è stata tornare a scrivere come se fossi un esordiente. Forse, penso, questa cosa si sente. Che mi sono liberato della pressione. Anche se diciamo che non ci interessa cosa pensano gli altri di noi, viviamo sotto lo scacco dell’opinione altrui: è una cosa normale, siamo animali sociali e viviamo in una rete sociale, grande o piccola che sia. Facciamo fatica ad accettare la disapprovazione. Ma io sono molto convinto che dovremmo imparare a farlo. Perché può anche darsi che quella rete si sfaldi; ma allora sarà il punto di partenza per costruire una nuova rete di persone intorno, che forse ci capiscono meglio. Vale la pena prendersi la responsabilità di non piacere: per quanto ne possiamo sapere noi, abbiamo una vita sola. Forse anche qualcuna di più, chissà; ma adesso abbiamo questa.