E ogni anima su questa terra (Castelvecchi), esordio narrativo di Edoardo Pisani, è un romanzo di solitudini che si auscultano, si sfiorano, si sovrappongono negli interstizi opachi di una rincorsa tormentata e inquieta, destinata a concludersi senza alcun vincitore; la messa in forma di un attraversamento, di un logorante scavo eziologico che rimane però frustrato, interrotto, al cui termine il passato si è divorato tutto il presente, facendo del tempo un’orbita circolare sempre in perdita, la fantasmagoria crudele di una ricerca priva di sbocchi salvifici. Nella successione lenta e frastagliata della traiettoria regressiva verso cui si incanala pagina dopo pagina il dettato narrativo, quello che a prima vista sembrerebbe il tentativo sensato e perfino necessario di ricostruire a ritroso le tappe di una genealogia dissestata, di riempire i vuoti lacerati di un’archeologia familiare piena di rimozioni e spettri, si trasforma sorprendentemente nel racconto di una caduta paranoica, di un progressivo sfaldamento psichico e identitario, l’epopea rovesciata di un quête predisposta inesorabilmente a fallire sin dalle sue premesse fondative.
Smettendo da subito i panni del romanzo di formazione, che, dopo le pagine inaugurali, può far pensare sbadatamente a un modello illustre come Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, E ogni anima su questa terra diviene, al contrario, per un sovvertimento dei fini ben radicalizzato nell’impianto generale dell’opera, romanzo di de-formazione, la stessa a cui va angosciosamente incontro il protagonista, il diciottenne Yuri, nato l’11 settembre 2001 e per questo condannato suo malgrado a vivere il crollo e il disfacimento – di sé, degli altri, del circostante – come forme obbligate dell’esistenza, lungo un piano inclinato la cui superficie appare più ripida di quanto egli stesso avesse potuto presagire all’origine della sua parabola narrativa.
Dopo aver ricevuto, allo scatto della maggiore età, un esiguo lascito da parte di suo nonno Gabriele – un quaderno, una foto, qualche indumento rovinato –, Yuri sente il bisogno, in virtù della sua inaspettata posizione di “prescelto”, di fornire un senso a quella strana eredità, verificare innanzitutto la possibilità di un senso rintracciabile, inaugurare un dialogo con un fantasma lontano, dai lineamenti evanescenti, e contestualmente con i demoni che lo hanno abitato per decenni, quelli della pazzia, stravolgendone radicalmente la vita, allontanandolo dai suoi cari, provocando la netta rottura con Eugenio, figlio ma anche orfano di un “padre impossibile”, e infine riannodare a sé le fila di un passato inesistente, di una memoria sottratta.
Il dono di questo nonno mai visto, di cui non supponeva neanche l’esistenza, innesca, come fosse il primo motore immobile delle vicende narrate, il vorticoso affanno di Yuri intorno ai misteri, alle ellissi e alle omissioni che a poco a poco emergono, grazie a un’indagine approfondita che assume progressivamente le sembianze macabre di una vera e propria ossessione, intorno alla figura di Gabriele, la cui anima, per lunghi anni oppressa dall’incomprensione e dalla solitudine, sembra adesso riaffacciarsi sul mondo dei vivi, proprio per il tramite del nipote Yuri, che invece subisce, al contrario, rappresentando il polo opposto di questo rovesciamento chiasmico, un latente processo di svuotamento, di perdita delle coordinate assiologiche attraverso cui leggere la propria realtà, di decostruzione umbratile dell’io.
Cercando di ragionare intorno alla follia del nonno, da cui è attratto come fosse bersaglio privilegiato di un’irresistibile forza calamitica, di comprendere i motivi, le forme, i dolori che si celano alle spalle del suo passato isolamento e della sua forzata reclusione, Yuri s’inabissa in una spirale immersiva, che seppur si apre sporadicamente a estemporanee rivelazioni epifaniche, lentamente lo allontana dalla sua preoccupata famiglia, dalla sua giovinezza ferita, dalle abitudini regolatrici di una quotidianità precedente. Cercando di conoscere se stesso attraverso il mistero di Gabriele, attraverso i chiaroscuri di un lascito dalle fattezze oracolari – i quaderni della follia –, Yuri finisce col confondere la propria voce con la scrittura che è oggetto della sua indagine, mescola i punti di vista, contamina le immagini, si lascia invischiare dalle parole illuminate e allucinate di Gabriele sino a raggiungere uno stadio avanzato di identificazione osmotica, sino a dare persino l’impressione di essere stato posseduto dal germe redivivo di suo nonno.
In questo modo il supposto tracciato filogenetico da percorrere linearmente all’indietro fino al momento decisivo in cui la normalità è giunta a spezzarsi o forse a mostrarsi davvero per quello che è, cioè capovolgendosi, smascherando la fallacia del comune ipocrita buonsenso, della normatività uniforme ed egemonica, del conformismo più bieco e aguzzino, dimostra d’essere altro, un reticolo, verrebbe da dire, un palinsesto alveolare in cui i nessi tra la follia accertata del soggetto ricercato – il nonno – e quella nascente del soggetto cercatore – Yuri – si moltiplicano e si infittiscono, allentando la presa dello stesso protagonista su un presente fattosi ora impossibile da radiografare, poroso, instabile, desolato, non più riconducibile a una visione salda e ancorata.
Spesso agito da un istinto prerazionale, quasi ferino, Yuri sperimenta un fenomeno di dissociazione dal reale, una catarsi rovesciata che assurge gradualmente allo stadio di vero e proprio impazzimento, con relativo indebolimento fisico e mentale. Entro le maglie proteiformi del sempre più rapido processo di annichilimento del sé, Yuri corteggia la follia, la accoglie in sé perché agogna il suo potere sovversivo e oppositivo, intravedendo nel fulgore che da essa fuoriesce improvviso il segnale di uno spazio d’accesso capace di traghettare verso una nuova dimensione dell’essere, finalmente liberata dal giogo delle costrizioni sociali, dalle catene dogmatiche che falsificano il quotidiano vivere, dalla stupidità e dai pregiudizi che impoveriscono le relazioni interpersonali, dal facile manicheismo che presume di conoscere da che parte sta la salute e dove invece si annida la malattia.
Tuttavia, la pazzia è un male dai mille volti, che non si lascia domare, non si lascia avvicinare docilmente, rigetta le interpretazioni e i significati, anche quelli che sembrano più consoni e adatti. Il nero vuoto con cui risucchia tutto ciò che le gravita intorno non conosce argini né barriere, ma solamente l’oblio e la furia; non può esserci perciò alcuna salvezza per chi ne saggia gli aculei, nonostante l’amore – sia esso vissuto, immaginato o ricordato – e la comunione delle anime di coloro che si riconoscono e continuano a conversare e a tenere fede ai loro legami dentro e al di là dell’esperienza terrena.
Pisani gestisce con notevole capacità organizzative (un po’ meno di sintesi) un materiale diegetico complesso e stratificato, rivelando grande sicurezza – per nulla scontata in un esordiente – nel mantenere stabile e ben a fuoco il baricentro dell’architettura narrativa, pur nella successione vertiginosa dei fatti, dei pensieri, dei monologhi interiori, negli incastri turbinosi dei vari livelli temporali e nelle tentazioni digressive e centrifughe di alcuni passaggi. Lo stile sfranto, sussultorio, magmatico, ben sorretto da uno scheletro discorsivo che ingloba a sé, rendendole funzionali alla parabola romanzesca, le esplosioni linguistiche, restituisce con piena aderenza espressiva il vorticoso procedere delle vicende, sublimando, mediante rapsodici slanci liricizzanti, l’inabissarsi carnale, tensionale e oscuro non solo di Yuri, ma di tutti gli altri protagonisti del racconto: Gabriele, Matt il Cieco, Claudio. Del resto, anche se al dramma della pazzia corrisponde analogamente il dramma del linguaggio, la scrittura rimane l’unica via percorribile, l’ultima scintilla di luce nel buio crescente tutto attorno.