“Mondo Narrativo”: nozione elastica, che si allarga e si restringe a seconda della storia che ospita e, simultaneamente, genera e determina. Un Mondo Narrativo può essere rappresentato da una metropoli, da un villaggio, da una strada. Oppure da un insieme di metropoli e di villaggi, o da un insieme di strade. Ma questa definizione non lo esaurisce. Un Mondo Narrativo è un sistema dinamico di relazioni. E ci sono pochi generi capaci di sussumere il significato di questa frase meglio del fantastico, che quando si serve dei cosiddetti Mondi Secondari quei sistemi li crea ex novo, materia narrativa che non c’era e ora, invece, c’è.
I Mondi Narrativi secondari e semi-secondari si sposano bene con la televisione come grande contenitore di storie. La serialità se ne è spesso servita per potenziare il suo impatto, traducendo quelli dei romanzi oppure pensandone di radicalmente nuovi; altre volte si è invece concentrata su una sorta di via di mezzo, mescolando tratti di realtà e di fantasia per massimizzare la sensazione di somiglianza e alterità rispetto al contesto nel quale si muovono ogni giorno i nostri corpi.
Già negli anni Sessanta Doctor Who e Star Trek, due show arrivati a distanza di tre anni l’uno dall’altro da due continenti diversi, avevano dimostrato quanto elastici fossero i Mondi Narrativi consentiti dal mezzo: entrambi lavoravano sullo Spazio come luogo ipersemantizzato e già consegnato alla coscienza e all’inconscio collettivo, mescolando rudimenti scientifici a intuizioni quasi fiabesche; ma è stato probabilmente con Twin Peaks prima (1990) e con Lost dopo (2004) che questa incredibile capacità dei piccoli schermi si è manifestata appieno, con un movimento inverso e speculare.
La cittadella di David Lynch conteneva un Sottosopra ante litteram e, a ben vedere, la missione della storia era esplorarne tutte le reti rizomatiche. Queste erano condizione sine qua non per la penetrazione di un personaggio, o per meglio dire di un’istanza narrativa maligna, ed effetto di quell’istanza. Twin Peaks nella serie è un ecosistema chiuso e penetrato perché è possibile farlo; perché ve ne sono le premesse.
Anche l’isola di Lost è un ecosistema chiuso, ma a penetrarlo come istanza narrativa maligna o benigna sono le e i superstiti dell’Oceanic Flight 815. Sono loro i Bob di quella storia, che arrivano dove non dovrebbero – o dovrebbero? – perché l’isola come superluogo che li contiene ed eccede è pronto ad accoglierle e accoglierli, anche se loro pensano esattamente il contrario.
In entrambe queste serie straordinarie, tuttavia, il fattore dirimente rimane proprio la spazialità del Mondo Narrativo che si presenta come percorribile in tutta la sua falsa piccolezza, ma reale vastità. L’opposto di quello che accadeva con Star Trek e Doctor Who.
Gli anni Duemila sono, però, anche quelli dell’esplosione di Grand Theft Auto o World of Warcraft, e forse non è insensato dire che la televisione, per costruire Mondi progressivamente più ambiziosi dal punto di vista tanto spaziale quanto relazionale, ricorre allo slancio videoludico dell’open world per spingersi oltre i suoi stessi limiti, in concordanza con le tendenze dello storytelling immersivo e non sequenziale. C’è da dire che questa spazialità esiste nella letteratura dei Mondi Secondari (basti pensare a Oz o al Paese delle Meraviglie) già da tempo immemore, e a loro volta sono i videogiochi a nutrirsene per valicare i limiti della rappresentazione audiovisiva restituendo loro il corpo di pixel che la pellicola mutuerà e da cui si farà mutuare.
Nel 2011 Game of Thrones si aggancia all’epica letteraria di George RR Martin per costruire un Mondo Narrativo spazialmente significativo privo di precedenti fino a quel momento, che inoltre diverge consistentemente dalla sua percezione nei libri; si può quasi parlare di due Mondi simili, ma in ultima analisi diversi (si vedano le numerose polemiche sulla veridicità, o meno, degli spostamenti). L’identificazione delle porzioni di quel mondo, manipolato dalle forme sulla pagina per essere consegnato a una spettatorialità che non è davvero (ancora) pronta per farlo, corre sul filo della restituzione in primo piano di dettagli semplici quali il colore di capelli, tradizionalmente utilizzato anche nell’età dell’oro di Hollywood per convenire tempi differenti, costumi differenti, politiche differenti persino (si pensi alle acconciature di Cleopatra, Ben Hur, I dieci comandamenti per citarne alcuni). Game of Thrones, del resto, è un low fantasy, ossia un fantasy con scarsi elementi propriamente fantastici (la magia, i draghi, i white walker) e per quanto uno show simile ponga immediate questioni di budget, l’audience si lega a quello che già conosce, ossia a una storia fatta di diplomazia e violenza in un setting tradizionalmente antieroico ormai estremamente familiare a chi ha guardato prodotti premium cable (ossia, della tv via cavo ad abbonamento negli Usa) da Oz, a The Wire, a Breaking Bad, a Mad Men e True Detective.
La rabbia e la vendetta sono i sentimenti a tinte forti che spesso, in Game of Thrones, stabiliscono attivamente i confini tra le regioni di Westeros: poteri acquisiti e perduti, complicati equilibri tra culture che spesso sfociano in conflitti e palinsesti di antiche rimostranze tra casate sono responsabili degli smottamenti, dei terremoti e delle frane che riscrivono le mappe come è tipico del fantasy dei Mondi Secondari. Ma le personagge e i personaggi di Game of Thrones – antieroi e antieroine, per lo più – sono anche volti e corpi ancora senza consistenza (per chi non ha letto i romanzi) quando arriva la prima stagione. Per muoversi bene nel Mondo Narrativo di Westeros, occorre un sacrificio in tempi di tempo e dedizione che non ha paralleli fino a questo momento. Neanche con Lost.
Prima di arrivare a The Rings of Power – cui conduce logicamente la sequenza – bisogna, però, menzionare la serie che forse meglio di ogni altra rappresenta la spazialità complessa, insieme aperta e chiusa, dei nuovi Mondi Narrativi televisivi. Westworld funziona piuttosto bene solo nella sua prima, spettacolare e ultraprestigiosa stagione, ma volando sugli insight futuribili di Michael Crichton rende conto alla perfezione della sinergia tra open world videoludico e nuovi linguaggi audiovisivi. Anche in questo caso i ponti su cui attraversare guadi spaventosi sono fatti di parole: è la sceneggiatura a costringere chi guarda a fare il callo a uno scisma invisibile, quello tra cyborg ed esseri umani su cui si installa il dubbio del Replicante cui è necessario affidarsi per scoprire le regioni sommerse sulla mappa. Westworld, scopriamo, non è che una di quelle regioni ed è in questo smarrimento indotto che si innesta la smania di sapere di più. Di esplorare di più.
Ma è a JRR Tolkien che, a questo punto, la TV si rivolge per potenziare la prestazione di Mondo Narrativo più di quanto sia mai stato fatto. È un’impresa titanica e semioticamente quasi impossibile, ma molti fattori concorrono alla sua attuazione.
Il primo riguarda lo stato simil-saturo della televisione stessa, che ormai farebbe carte false per racimolare un granello in più dell’attenzione del pubblico. Non è un caso che dopo i baccanali del binge watching si ritorni a una valorizzazione del capitale investito in contenuto di qualità. Nella perenne moltiplicazione delle piattaforme e dei canali, nessun broadcaster si può più permettere la svalutazione istantanea, il consumo veloce e l’uscita dalle conversazioni che si è trascinata dietro l’era delle maratone, lì dove quest’ultimo aspetto è di gran lunga il più importante. Nel 2022 se di uno show non si parla, quello show nemmeno esiste nonostante il denaro sonante sia stato speso, eccome.
Il secondo è il potere ormai conclamato di una singola storia (il cosiddetto “show bandiera”) di attirare abbonamenti. È una vecchia lezione, questa, che arriva direttamente dai tardi anni Duemila e non smette di provare la sua importanza. Se Netflix ha il “vuoto” e ipertestuale Stranger Things, Apple Tv+ Ted Lasso che inaugura una nuova stirpe di eroi, Disney+ una villainess protagonista con WandaVision (senza menzionare il suo vault inestimabile di film del canone) e Sky/Hbo la seconda, maestosa venuta di Game of Thrones con House of the Dragon, Prime Video non solo non rimane indietro, ma scatta in avanti tra fuochi d’artificio.
Lo fa scomodando la storia delle storie, il Mondo tra i Mondi, la saga delle saghe, versandovi una quantità di soldi mai vista, mezzo miliardo, ed eliminando ogni sensazione di precarietà mettendo subito in chiaro che il carrozzone è stanziale, è lì per restare e non ci saranno chiari di luna che tengano, lì dove anche i franchise più fortunati nascono e muoiono alla velocità della luce. È l’equivalente di sbattere il pugno sul tavolo, spaccandolo a metà. Così The Rings of Power arriva tra fanfare di ascolti altisonanti quanto il titolo stesso, eppure il pubblico non sembra rispondere bene a un Mondo Narrativo ben più installato negli immaginari di quello di George RR Martin, che tuttavia non ne presenta immediatamente le caratteristiche attese (si guardi lo score di pubblico delle due serie su Rotten Tomatoes, per capire la differenza tra accoglienze con House of the Dragon).
Accennavo che l’operazione è semioticamente complicata, perché bisogna fare due cose: da un lato destreggiarsi tra giungle di diritti e acquisizioni di materiali originali, il che comporta la discontinuità con il lavoro di Peter Jackson, inevitabile benchmark e baluardo; dall’altro restare esattamente lì dove non è possibile farlo, ossia proprio sulle trilogie del regista che nel 2001 ha – a sua volta – ridisegnato la mappa di quello che il cinema poteva riprodurre da un ciclo di romanzi. Questo slalom ha un precedente: The Witcher ha avuto già un problema simile perché se non era possibile citare direttamente i videogiochi che hanno reso grande il ciclo di Sapkowski, bisognava tuttavia dare gomitatine e strizzare occhi per attrarre, trovando mille e una maniera di compiacere e non alienare agganciandosi alla versione del testo per certi versi perdente, cioè quella letteraria.
Non è proprio lo stesso, evidentemente (i materiali di Tolkien non hanno paragone con quelli di Sapkowski), ma The Rings of Power deve vincere la scommessa di costruzione del più scosceso e affascinante dei Mondi Narrativi mai visti sui piccoli schermi e così opta (forse sbagliando) sulla fiducia di chi guarda. Tesse una rete di relazioni molteplici tra personagge, personaggi, epoche e location lavorando sulla matericità del set molto più quanto abbia fatto persino Game of Thrones con i suoi scorci straordinari. Ogni dettaglio conta, e come la storia comanda non è la casata, ma la razza, ossia il corpo biologico, a scrivere la mappa anche nella traduzione audiovisiva del testo. La sceneggiatura deve, così, lavorare verticalmente e orizzontalmente sulle identità collettive e individuali come raramente ha fatto. Se il tempo dello schermo non cambia (perché comunque cinquanta-sessanta minuti gli episodi di una stagione ridotta devono durare), il tempo della storia deve dilatarsi a dismisura inciampando inevitabilmente nella noia di chi non ha abbastanza conoscenza profonda dei mondi di Tolkien, e di chi a quel punto si aspetta fedeltà assoluta a fronte dello sforzo richiesto.
Il risultato è maestoso, per chi lo sa osservare: sfruttando un impianto narrativo a enigmi pesantemente debitore del metodo Westworld, The Rings of Power offre l’equivalente di una cena sontuosa dopo una infinita e ripida scarpinata con zaino di quindici chili in spalla, rivelando finalmente chi è chi. È un piacere lungamente negoziato, una carota dopo il bastone delle ore trascorse a ri-mappare mentalmente l’ecosistema narrativo nelle sue numerose parti per godersi appieno il gran finale. Ma quello che conta è appunto la professione di fede del broadcaster nei confronti di questa nuova audience, avvezza e mai davvero avvezza alla straordinaria potenzialità spaziale di un Mondo che non si esperisce, come fanno Game of Thrones e House of the Dragon, con le emozioni forti ma con la comprensione graduale, persino faticosa, richiesta dai prodotti che considerano il loro pubblico intelligente.