Le Perfezioni, l’ultimo romanzo di Vincenzo Latronico, inizia con la descrizione di un appartamento berlinese; o meglio, inizia con la descrizione delle immagini di un appartamento berlinese. Ed è a partire da questo complicato rapporto fra immagini e realtà che siamo introdotti nella vita di Anna e Tom. Due creativi, li potremmo definire, due che hanno raggiunto un buon grado di soddisfazione personale e professionale; due a cui sembra mancare niente. E invece, già a partire dalle prime pagine, si percepisce che lo sfondo materiale (e non) che abbraccia la loro vita nasconde una natura diversa. Una natura che Latronico esplora con una scrittura compatta, priva di decorazioni, in grado di muoversi con disinvoltura fra l’attrito provocato dalla realtà, una realtà piena di oggetti, e i voli degli enunciati. Le Perfezioni, vincitore della XLVIII edizione del Premio Mondello, dimostra di essere un romanzo utile e prezioso perché rendere lampanti i problemi e le ambizioni, le ansie da riconoscimento di un’intera e irrisolta generazione.
Chi sono Anna e Tom? E perché le loro azioni, quasi fino alla fine del libro, coincidono sempre?
Anna e Tom sono una coppia. Di loro, in quanto coppia, si sa molto; in quanto individui no.
Mi interessava raccontare una storia che includesse l’amore – la storia di una coppia – ma che non fosse una storia *di* amore: che non ci fossero cioè corteggiamenti e litigate, tradimenti, discussioni, famiglie allargate. Non che queste cose non mi interessino: ma sono tutte, diciamo, scene primarie. Quello che volevo mettere in luce in questo libro erano gli sfondi: le atmosfere e gli ambienti in cui esisteva questa coppia (visto che l’idea alla base del libro è che oggi la somma dei nostri ambienti basta a descriverci in modo più o meno completo). E quindi ho dovuto sottrarre tutto ciò che avrebbe occupato il proscenio: quindi, sostanzialmente, l’individualità dei personaggi. È anche per questo che non ci sono dialoghi, perché sono per antonomasia l’espressione di un individuo.
Ho cercato di caratterizzare questa coppia in modo assolutamente completo, per quanto riguarda ciò che li distingue dal mondo esterno; ma ho eliminato ogni possibilità di distinguerli fra di loro.
Le prime pagine, dove descrivi un appartamento a Berlino, sono sconvolgenti. Appena le ho lette, ho rivisto non soltanto casa mia, che è in Italia, ma moltissime case di amici e colleghi sparse per il mondo. Questi ambienti che cosa raccontano della nostra generazione? Perché sono così sovrapponibili? Ci spieghi l’ossessione per le piante?
Per certi versi non penso che sia un fenomeno unico della nostra generazione. Qualcosa di simile aveva fatto (estremizzandolo) Wilde con gli appartamenti dei dandy londinesi; lo stesso Perec cercava di cogliere il gusto di una certa borghesia intellettuale parigina. Ciò che oggi è diverso è forse l’internazionalità di questi stilemi (almeno in Occidente), favorita dai social in cui circolano le immagini – che poi, e questo è cruciale, si mantengono vendendo spazi pubblicitari ai venditori di quei mobili e quegli orpelli.
La stessa cosa è avvenuta con le piante, che si propagano di appartamento in appartamento attraverso quelle stesse fotografie e – in misura sempre crescente – gli stessi venditori. Il fatto che siano esseri viventi, e quindi il possederne ha un portato di cura e intimità che non vale di mobili o utensili da cucina, rende in qualche modo più crudele il pensiero che non siano che orpelli alla moda. Ma ovviamente le ho anche io, proprio quelle lì.
L’arte occupa un posto speciale. Che funzione ha nella vita di Anna e Tom? E nella tua?
In qualche misura è la stessa. Ho cominciato a lavorare come critico d’arte appena arrivato a Berlino. Non è stata la passione ma nemmeno il puro conformismo a spingermi: diciamo la sensazione che a Berlino, in quegli anni, la scena artistica fosse particolarmente feconda e movimentata, il che finiva per attrarre chi aveva un po’ di curiosità e molto tempo libero. L’ho usata più come comunità – di affetti ma anche di idee – che non come campo di sapere vero e proprio; giravo per le inaugurazioni di mostre con la scusa di recensirle e incontravo amanti, persone con cui discutere di libri, futuri coinquilini. Era il sistema circolatorio dell’organismo composto da tutti gli espatriati anglofoni di quegli anni.
Una delle migliori qualità del libro è la scrittura. In che modo l’hai resa così solida e precisa?
Penso che c’entrino due fattori. Da una parte, mi sono indirizzato verso una scrittura il più possibile saggistica. Le perfezioni è un romanzo, nel senso che racconta cose inventate; ma è il tentativo di osservare quelle cose come lo farebbe un saggista. Questo richiede una certa freddezza analitica.
Il secondo fattore è che ho deciso di tenere a freno certe mie tendenze massimaliste – la ricerca della frase brillante o del paragrafo sorprendente, due tratti che sentivo di aver ereditato dalle grandi passioni della mia formazione – Foster Wallace e Bolaño – senza però essere riuscito a farle del tutto mie. Ogni tanto mi permettono di produrre “belle frasi”, qualunque cosa significhi, ma sono frasi vuote, imbrogli: la “bellezza” superficiale spesso non è che un modo di distrarre il lettore da una mancanza di precisione o profondità. E allora mi sono messo a tradurre in inglese, da solo, la mia bozza italiana. Non pensavo di poter produrre un inglese ottimo (perché il mio non lo è), ma proprio questo mi ha aiutato, nella misura in cui lo strato superiore, “ottimo”, del linguaggio è quello in cui si produce la “bella scrittura”. Mancando di esso, nel tradurre in inglese mi rendevo conto di quando in italiano stavo imbrogliando, e quindi intervenivo sull’originale per renderlo onesto. È stato laborioso e a volte temo che abbia prodotto un appiattimento generale della temperatura linguistica, ma nel complesso ha funzionato.
A un certo punto affermi: «Non sempre la realtà era fedele alle immagini». Come si è capovolto il rapporto fra realtà e rappresentazione? È in questo senso che intendi Le Perfezioni?
Sì, per me questa è una frase cruciale nel definire ciò che volevo fare. Non so esattamente come si sia prodotto questo capovolgimento, ma la mia sensazione è che ormai sia assodato. Se un tempo guardavamo una fotografia troppo perfetta con sospetto, sapendo che non corrispondeva alla realtà, oggi sempre più spesso accade il contrario: nel senso che la fotografia (ritoccata, messa in scena, curata) ci pare rappresentare la natura profonda di una persona o una situazione più di quanto non si intuisca da una realtà che è caotica e piena di sbavature. Ho letto di recente che i chirurghi plastici si sentono sempre più spesso domandare dai potenziali pazienti se possono ricreare sul loro viso l’effetto di questo o quel filtro di FaceTune. Ecco, mi sembra un buon esempio.
Nei brani in cui parli della sessualità di Anna e Tom emerge la loro preoccupazione di andare bene, di fare le cose al meglio, e questo li distoglie dal piacere. Per un verso sembra che siano sempre al lavoro, anche quando fanno l’amore, per un altro che abbiano un mare di tempo libero. Che rapporto c’è fra vita e lavoro?
Quello che dici è molto preciso, e nel rispondere mi rendo conto di averlo inscenato nel romanzo senza esserne del tutto consapevole. Non si tratta tanto del “rapporto” fra vita e lavoro, in termini di tempo o impegno relativo, ma di un atteggiamento di ottimizzazione che dall’ambito della produzione si è esteso a molti altri aspetti della nostra vita. Forse è cominciato con le diete, i discorsi sulle calorie e i cibi sani (che cambiano, naturalmente, col cambiare delle mode). Nel momento in cui qualcosa non è più un dato (ciò che ho da mangiare, il posto in cui abito, il modo in cui mi sento di esprimere il mio desiderio sessuale) ma una scelta, cioè un punto in uno spazio di possibili alternative (spesso in vendita), siamo portati a operare questa scelta come attori razionali, cioè con un calcolo costi-benefici. In teoria non c’è nulla di problematico nel farlo – e intendo “in teoria” in senso letterale: la teoria dell’azione razionale non ammette fattori qualitativi in grado di svalutare un’azione che in base ai parametri quantitativi sia la migliore. In pratica questo genera la sensazione di mancanza di autenticità e profondità che perseguita i personaggi per tutto il romanzo.
Nelle parti conclusive fai un discorso molto intelligente sull’impegno politico e i social network. Che differenza c’è fra impegno politico e autopromozione?
Sono come l’impegno politico e la dieta: in linea di principio non c’entrano niente, ma uno può scegliere una dieta (ad esempio vegetariana, o a km zero) per ragioni politiche. Allo stesso modo c’è chi usa la natura intrinsecamente autopromozionale dei social a fini politici; ma è inevitabile che per una persona che ci riesce ce ne sono tante che si fanno trascinare dalla spinta strutturale del mezzo – perché a spingere, contro la tua singola volontà e determinazione, sono spesso migliaia di coder fra i migliori al mondo pagati oro solo per vincere questo tiro alla fune contro di te.
C’è una via d’uscita a questa specie di “insoddisfazione senza desideri” che provano Anna e Tom?
Esserci c’è di sicuro. Io non la conosco.