Jazmina Barrera, nata a Città del Messico, nel 2013 riceve il premio Latin American Voices per la raccolta di saggi Cuerpo extraño, è borsista della Fondazione per le lettere messicane e co-fondatrice ed editor delle Ediciones Antílope. Quaderno dei fari, il titolo precedentemente pubblicato da La Nuova Frontiera e tradotto da Federica Niola, è stato candidato al Premio von Rezzori 2022. Linea nigra narra l’esperienza della gravidanza vissuta in prima persona dall’autrice, un «viaggio enigmatico, impervio e incredibile», durante il quale Città del Messico viene scossa da un terremoto. L’intervista realizzata con Jazmina Barrera parte proprio da questo libro.
In un certo senso abbiamo sempre pensato alla maternità come a qualcosa di naturale, nessuno faceva menzione del disagio che la donna prova nel viverla sul proprio corpo, la possibilità di sentirsi inadeguate, l’inappetenza verso la voglia di essere madri. Siamo passati da una letteratura esaltante a una letteratura che per affrancarsi dai tabù, ha voluto raccontarci tutti i lati oscuri della maternità, delle madri, delle donne. Non voler essere madri è stato gridato a gran voce. Poi è arrivato il suo libro. Che cosa c’è nel suo libro, sulla gravidanza, che non è ancora possibile raccontare? Quanto è importante che la letteratura continui a infrangere i tabù della nostra società?
In Linea Nigra ho cercato di raccontare le contraddizioni del desiderio di maternità: la paura, il rifiuto, il disagio possono coesistere allo stesso tempo con lo stupore, la gioia e l’amore. Non si parla ancora di molte cose che riguardano la gravidanza, perché ogni gravidanza è unica. L’esperienza della maternità viene determinata dal carattere, dalla famiglia, dalla cultura, dalla biologia, dall’economia e da molti altri fattori, ecco perché ogni esperienza ha il carattere di unicità ed è degna di essere raccontata. Oltre a questo, l’aspetto biologico della gravidanza custodisce ancora molti misteri per la scienza, come lo sono alcuni aspetti del corpo delle donne, studiato meno rispetto a quello degli uomini. La maternità è circondata da tutti i tipi di pregiudizi, stereotipi e tabù, perché, come dici tu, è sempre stata considerata come qualcosa di naturale per il corpo delle donne, qualcosa che le completa, naturalmente formate per farlo, e di cui il resto della famiglia e lo Stato non devono preoccuparsene, e molte arrivano alla maternità sentendosi inadeguate nel non riuscire a compensare le aspettative di ideali impossibili, come quello della superdonna. Dobbiamo affrontare questi tabù che rivestono i corpi delle donne, gli stereotipi che le circondano, perché altrimenti le donne continueranno a sentirsi sole e incomprese.
In Il letto di Frida, libro di Slavenka Drakulic dedicato alla vita di Frida Kahlo, a proposito del desiderio dell’artista di avere un figlio da Diego Rivera, l’autrice croata scrive: «sapeva che le donne che avevano figli non si sentivano mai disperatamente sole». Lei scrive esattamente la stessa cosa nel paragrafo introduttivo al suo libro e dice anche di aver provato «terrore e gioia». Vorrei riflettere proprio sulla solitudine della donna, la maternità attraversata dalle donne si svolge ampiamente nell’anonimato, il suo libro potrebbe essere inteso come il racconto di un’esperienza, sì personale, ma che rappresenta anche una memoria collettiva capace di dare voce a ogni singola donna.
C’è, certamente, un’intrinseca solitudine in ogni essere umano che non si esaurisce, nemmeno con la maternità. Ma la solitudine cambia con la maternità, specialmente in relazione a questa. Con questo libro volevo riflettere, attraverso i riferimenti alla letteratura e all’arte, quanto sia davvero diversa l’esperienza della maternità. Non potrei mai dare voce a ogni singola donna e alle persone incinte, ma volevo che percepissero lo spazio per loro differenze e somiglianze all’interno di questo campione di pluralità.
In un vecchio film di Francesca Archibugi, intitolato L’albero delle pere, una giovanissima Valeria Golino legge, come ninnananna alla sua bambina, le poesie di Emily Dickinson. La scena di quel film mi è tornata in mente leggendo il suo libro, perché lei utilizza brani di altri libri e da altri autori, per raccontare ciò che è la maternità, un modo per trovare conforto, consolazione, ispirazione. E mi è tornato in mente quando, nel libro, lei si interroga su quando potrà tornare a scrivere, avere del tempo da dedicare alla scrittura. Ma con il suo libro, non ha voluto dimostrare che non ci sarebbe un tempo per la scrittura se non ci fosse un tempo per l’esperienza personale?
Il libro parla con questo timore. Ma penso che sia anche una prova di come quei compiti, che abbiamo così facilmente liquidato come opposti alla creatività, come la cura e i lavori domestici, possano far esplodere delle opere creative e intellettuali. In effetti, in molti modi, possono essere dei lavori ingegnosi.
Nel suo libro cita Sarah Manguso che definisce la maternità un terremoto. E lei questo terremoto lo vive sulla sua pelle, in prima battuta perché è incinta, in seconda battuta perché lei è incinta mentre Città del Messico viene scossa da un terremoto. Il terremoto è un fenomeno che distrugge, «una demolizione», che cosa immaginava sarebbe accaduto dopo che le scosse sarebbero cessate?
Amo una frase di Mary Shelley in cui dice che non creiamo mai dal nulla: creiamo sempre dal caos. Per me, questo libro parla di questo, di cosa possiamo creare dai resti dell’identità, da un corpo spezzato o malato, da un dipinto in frantumi.
Lei utilizza la letteratura e la sua scrittura per raccontare tutti gli aspetti della maternità, consente di ricondurre la maternità a un’esperienza collettiva, ed è così, che abbraccia tutte le donne che l’hanno attraversata. Mi ha colpito come abbia voluto ripercorrere il tragitto che ha riguardato sua madre, il suo corpo, la sua espressività, il suo addentrarsi nei suoi dipinti e riguardare il suo autoritratto dipinto mentre era incinta. Lei parla spesso di sdoppiamento della madre, della sensazione di crescere un essere che è già indipendente all’interno del suo corpo. È stato un modo per tornare a essere allo stesso tempo figlia e madre e accettare la separazione definitiva del corpo che avviene con il parto?
Mi è sembrato inevitabile, una volta diventata madre, riscrivere la mia storia con mia madre e mia nonna, per tornare su quel sentiero comune che mi ha condotto al corpo di qualcun altro. Più che accettarne la separazione, volevo sentire i modi in cui il mio corpo gli appartiene ancora.
Il corpo è sempre stato il luogo di una rivendicazione, che sia quella in cui la curiosità spinge il corpo a provare e a desiderare oppure il luogo in cui si subiscono le scelte altrui. È, inevitabilmente, uno strumento nelle nostre mani e nelle mani degli altri. Come ha preso le recenti restrizioni sulla possibilità di abortire negli Stati Uniti?
Sono sconvolta da questa inversione di marcia, compiuta in un Paese in cui ho vissuto e in cui molti dei miei amici vivono ancora. Sembra impossibile che ai giorni nostri, delle convinzioni religiose possano ancora opprimere il corpo delle donne a questo livello. La maggior parte delle donne che ha abortito negli Stati Uniti sono già madri, vogliono solo una migliore vita per se stesse e per i loro figli. Le donne – che sono già in media più povere – a causa di questa scelta diventeranno solo più povere. Le famiglie subiranno le conseguenze di una mentalità ristretta di una minoranza. La morte delle donne, la morte della madri, peseranno sulle loro spalle.