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Shin’ya Tsukamoto, tra perversioni e ossessioni salvifiche



Sotto una tettoia frangiuta, il diluvio che è entrato. Il kanji della pioggia non mette al riparo: permeabile, severo. Un tatuaggio che annuncia l’irreparabile dal cielo, potenzialmente letale come Un serpente di giugno (Marsilio). 

Anche se, per una volta, gli addendi scambiano e si può dire “meglio il film del libro”, Shin’ya Tsukamoto resta allucinato e riconoscibile. Il lungo che gli valse il premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia – A Snake of June (Rokugatsu No Hebi), 2002 –, su carta è altra cosa. Diluisce. Anche «città come Tokyo, una megalopoli di cartapesta» sanno sfaldarsi. Soprattutto nella stagione dei monsoni. 

La storia di Rinko, Shigehiko e lo stalker assetato di dolore parrebbe un triangolo letterariamente consueto, vicino allo spionaggio sentimentale. Lei (psicologa a uno sportello di help telefonico) e lui (workaholic germofobo) sposati male, l’altro (fotoamatore con cancro all’ultimo stadio) ad accendergli l’incendio sotto al letto. Invece, tra dialoghi vuoti e pensieri vastissimi, scoprono perversioni salva-vita, ossessioni mortali

Sembrerebbe, ancora, una narrazione estroflessa. Gli accadimenti purganti (il fotografo minaccia Rinko con degli scatti intimi a lei rubati: l’intento è di redimerla dalle proprie menomazioni sessuali paranoiche; il marito subentra per recuperare terreno, frana) hanno l’eccitabilità di appendici clitoridee, la mimica del tumore che si fa grappolo e grava, sporge, sbilancia. In realtà il libro si legge molto meglio quando lo si pensa come metafora, pesato in maniera astratta dentro la grande visionarietà alla quale Tsukamoto ha da sempre abituato. 

Tsukamoto

La retorica della pioggia, anzitutto. Protagonista battesimale (un sacramento verso gli inferi), martella ogni periodo. Il senso eiaculatorio di bagnato, di marcescente è il vero senso: chi si oppone al fluire decede, o s’ammala. «La stagione delle piogge, un periodo complicato che increspa la mia anima, fin nel profondo. Quando arriva (…), il mio corpo emana uno strano odore. Un afrore sinistro che crea inquietudine e che ho sempre cercato di coprire». Rinko trova «indecente ritrovarsi tutti i giorni sotto l’acqua scrosciante». Ognuno, lo pensa. «È incredibile come l’acqua si sia insinuata in ogni singola fessura della casa, intaccandole la salute. (…) La pioggia mi è entrata negli occhi nel naso, oltre che nella bocca». Questo veleno aiuta e accompagna le metamorfosi. Anche la città la subisce («la strada è diventata un fiumiciattolo che trascina lento lattine abbandonate e sacchetti della spazzatura, formando dei piccoli ingorghi a ridosso dei marciapiedi»). 

Rinko sogna di partorire, tra ano e vagina, degli extravaganti acini d’uva, come uteri espiantati ed enfiati. «Sembra quasi che la pioggia mi abbia ristretto», sussurra poi sudata, sveglia. Ecco. L’inizio dello stravolgimento, in quattro fasi.

«Avverto l’impercettibile chiara sensazione di un lucchetto che si apre». 

«Sono le tenebre della notte. Sento che sto per perdere il senno, vorrei ridere di me. Ho voglia di trafiggermi».

«C’è una strana donna riflessa nello specchio. Sono io».

«Mi tramuto in un animale selvaggio».

Anche gli altri, tardivamente, se ne accorgono – «Rinko si è trasformata in una divinità acquatica». Ma per la voce interiore, non è abbastanza – «Avresti preferito essere violentata. Avresti voluto che le sue grandi mani oltraggiassero il tuo corpo e i suoi denti ti lacerassero. Volevi che ti annientasse». 

La via per alterare-guarire, evolvere-sparire è la masturbazione.  R. e S. non fanno sesso. Hanno una relazione cavallerescamente patologica; lei vorrebbe un animaletto compensatorio, una cavia da carezzare, lui gode nel disinfettare il bidet e profumare sinteticamente le proprie feci. Gli orgasmi femminili (prima dal fotografo distrattamente catturati, poi sceneggiati e pretesi sotto ricatto) sono amplessi ferali che evolvono tra il buio delle stanze e il grigio dei vicoli aperti.

«La velocità del movimento aumenta, agito la mano come se cercassi di rimestarmi l’anima».

«Mettendo in mostra le ginocchia lucide simili a due uova sode sgusciate (…) si accarezza il mento, la bocca. Le sue dita irrequiete sembrano insetti alla disperata ricerca di cibo». 

Un serpente di giugno spiega come ci si prepara alla morte, nevrosi dopo nevrosi, affogando. È sempre troppo tardi, troppo presto. Il piacere fa male, al male ci si abitua. Il blu elettrostatico che su pellicola illividiva, luttuosamente, gli attori, qui è cinerino.
Grosse lumache muovono salivando ai margini della visuale romanzesca. E ci si domanda della serpe d’inizio estate, che titola l’impresa. Tsukamoto stima che alberghi in ogni donna immaginata. Magari è il bestial fantasma penico del padre archetipico, generativo e corrompente. Forse è l’alba buia del peccato lecito, da esaudire squama dopo squama. 





Photo credits
Copertina – Frame da
A Snake of June (Rokugatsu No Hebi, 2002) di Shin’ya Tsukamoto

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