Vodka, ginger beer e succo di lime sono gli ingredienti del Moscow Mule. Servito con ghiaccio, cambiano il marchio della vodka e quello della ginger beer, cambia il luogo in cui si sorseggia, ma il long drink e la sua ricetta sono una delle poche certezze dell’evanescente protagonista di Il figlio delle sorelle (Ponte alle grazie, marzo 2022) il secondo romanzo di Leonardo Luccone.
Raccontata in due tempi: a cavallo del Duemila il protagonista e sua moglie Rachele gestiscono il loro negozio, l’Happy Days, e cercano di concepire un figlio senza riuscirci; nel 2018 il protagonista vive con la sua compagna Gilda e la figlia di lei Carlotta, che è compagna di scuola nonché amica più cara di Sabrina, la figlia che a quanto sembra è riuscito ad avere con Rachele, ma che sta conoscendo solo ora: per quindici anni non c’è stato, in parte a causa del suo ricovero alla Nuova California, un residence per pazienti psichiatrici.
Come aveva fatto nel suo esordio, La casa mangia le parole, Luccone imbastisce una trama da tipico dramma familiare da interno borghese e la sfilaccia, la consegna a chi legge scomposta, questa volta attraverso la prospettiva deformante del suo narratore inattendibile, in un racconto che si fa mimesi della mente perturbata ed erratica del protagonista senza nome.
Come è riuscita Rachele a concepire Sabrina, quando sembrava impossibile? Perché Silvia, la sorella di Rachele, si è trasferita a Milano e adesso Sabrina non la sente da una vita, quella zia che viveva con loro, così unita a sua madre, che si truccava, pettinava, vestiva come sua sorella, tanto che le chiamavano le «gemelle Felicità»?
La narrazione è ellittica e la memoria del protagonista è lacunosa, i personaggi dialogano moltissimo ma sembra che le parole possano portarli solo più distante gli uni dagli altri.
«Dobbiamo prendere una bella gomma e cancellare certe domande».
«…»
«Non prendermi a esempio perché io non ci sono riuscito, però noi ci dobbiamo provare. Ognuno le sue, e insieme le nostre. Cancellarle non vuol dire rimuoverle, vuol dire sospenderle da qualche parte, spostarle in un sotterraneo dove andiamo solo quando siamo costretti o quando non possiamo farne a meno. Solo così possiamo farcela».
È ironico perché tutte le cose taciute, quei vuoti che concorrono all’architettura del romanzo rendendola ariosa, alleggerita da didascalismi, nella finzione abitata dai personaggi sono i non detti su cui l’impalcatura delle loro vite si regge tragicamente.
A proposito di tragedia, Il figlio delle sorelle è un romanzo che rimanda moltissimo al teatro greco (e forse anche a quello pirandelliano), sia esplicitamente, con gli intermezzi corali, sia nel gioco che fa sugli archetipi: l’identità che è in frantumi, il maschile e il femminile. Il protagonista è un uomo, ma è circondato da un gineceo, non solo circondato, ne è invaso, le voci delle donne attorno a lui infestano i suoi pensieri, li interrompono come interferenze in una trasmissione, lui che dovrebbe essere il centro, il padrone della storia, scompare invece, fagocitato dalle figure femminili, dalle sorelle, che hanno tutte un nome, mentre lui ne è privo.
«C’era tua moglie risorta sul prato prezzolato. C’era il pazzo orfanato gattoni su prato svillato, c’erano gli altri, ma c’era il prato cicognato e la coppia spregiata.
Strana tipa tua moglie sul prato crollato, si dà da fare, tua moglie spericolata traffica con le parole sul prato svinato, tua moglie mutata sul prato gongolato, moglie tubata, moglie colombaia, moglie trattata, moglie sorellata.»
Non potrebbe infatti essere più azzeccata l’immagine di copertina: la foto in bianco e nero di Anka Zhuravleva in cui un profilo femminile si sovrappone a un altro volto di donna di fronte, con lo sguardo in camera, le sopracciglia, i nasi e le labbra che si incontrano, in un richiamo all’iconico Persona di Bergman, di cui molto opportunamente evoca tutta la carica simbolica.
Non è stupefacente che un professionista del testo come Luccone sappia maneggiarlo con maestria, ma è notevole l’equilibro raggiunto qui tra la densità letteraria, la raffinatezza strutturale e la leggibilità: chi legge volta la pagina agilmente perché alla prosa calibrata, a tratti lirica, si accompagna una tramosità, ci sono dei segreti e c’è il desiderio di vedere che cos’è successo nel salto temporale, anche se poi l’autore si prenderà ben gioco di te per esserti lasciata coinvolgere.
Mentre in La casa mangia le parole Luccone aveva lavorato per accumulo con un montaggio ambizioso fatto di lacerti testuali, con una mimesi virtuosistica di scritture ipercontemporanee e trascurate (per esempio un blog di stampo diaristico), accostando il dramma familiare borghese alle catastrofi umane e naturali, andando a costruire un mosaico grandioso di una civiltà al tracollo in cui però i singoli personaggi risultavano al lettore emotivamente remotissimi, in questo secondo lavoro fa giganteggiare proprio i personaggi, in un’immersione della psiche anziché freddo osservatore esterno conduce chi legge all’interno, partecipe di uno sguardo dolente sul mondo che si sgretola, su uno stile di vita al tramonto, su un maschile che deve soccombere per lasciare spazio alla forza rigenerante e vitale del femminile.
Ci ho messo un’èra geologica a capire che le cose hanno per ognuno una fisionomia diversa. Che ognuno vede un diverso profilo del mondo, compreso il cantuccio che ha sotto gli occhi. E allora sbagli perché stai lì a pensare quant’è limitato questo qui, quant’è goffa quella lì, e non ti chiedi cosa pensano gli altri del fatto che cammini dinoccolato, che ci pensi tanto a capire le cose, che la testa ti pende da un lato, che fai solo sorrisi avari. (Della nostra voce abbiamo tutti un orgoglio esagerato).
Photo credits
Copertina – Alex Plesovskich on Unsplash