Non sono ancora terminati – la conta è lunga, non si intravede mai la fine – i torti della storia e del presente nell’aver dimenticato autrici e autori; occorre oggi annoverarne ancora uno, che porta il nome di Caterina Saviane.
Scomparsa nel 1991 a soli 31 anni, Saviane si porta addosso la fascinazione e il mistero che ogni morte prematura e un’esistenza inquieta presuppongono. Era la figlia del caustico e mordace Sergio Saviane, storico irriverente giornalista dell’Espresso e uno dei fondatori del Male – «per chi scrivi, padre mio, che tutti ti odiano e parlano male di te?» (Ore perse). Al padre, Caterina Saviane era molto legata e da lui ereditò tanto: il modo disordinato di vivere il quotidiano, la stentata sopportazione di un mondo in regola, l’insofferenza e il rigurgito violento contro il conformismo e il suo ben pensiero. Facevano una bella coppia insieme, Caterina e Sergio Saviane, forse due grandi amici più che un padre e una figlia.
Con la pubblicazione nell’aprile del 1978 nella collana Franchi Narratori (Feltrinelli) di Ore perse. Vivere a sedici anni – il primo romanzo di Caterina Saviane, ora del tutto introvabile perché mai più ristampato – l’autrice sconta già la pena di un’esistenza votata alla creazione, manifestando un rapporto viscerale con la scrittura, intesa in quanto salvezza – la pagina che diventa l’unico luogo in cui dare contezza di un quotidiano privato e pubblico – e in quanto dannazione: «un patto più forte di quello con il diavolo: scrivere e ancora scrivere, fino all’esaurimento». D’altronde, una relazione quasi carnale lega Caterina alla sua macchina da scrivere, che nella pagine di Ore perse occupa uno spazio narrativo alla stregua di un personaggio silenzioso, appesantendole la valigia delle vacanze estive e riempiendo con il suo sordo rumore dei tasti – «battito cardiaco stonato» – i silenzi di casa Saviane. Le sommesse e pigre giornate raccontate in Ore perse sono rotte anche dagli squilli del telefono, battezzato da padre e figlia come il violatore della privacy e a cui non si voleva mai rispondere, e dalle «sminuzzissime bestemmie» – rintocchi al ricordo crudele del tempo che passa – che popolavano il dizionario casalingo e quotidiano del giornalista mordace.
«Mio padre è già nello studio alla macchina da scrivere: una raffica di battute e una bestemmia; un’altra raffica e due bestemmie. Vuol dire che va male. Ma, dopo mezz’ora, si sente soltanto il ticchettio dei tasti. Senz’accorgermi, dopo pochi minuti, mi trovo anche io seduta alla macchina da scrivere. Comincia il concerto».
Se l’acutezza di sguardo e la maturità espressiva di Ore perse lo rendono un libro di raro valore, ponendolo oltre il termine di età in cui Saviane lo ha composto, il contenuto invece si fa pieno carico dell’incoscienza coraggiosa dell’adolescente, ponendosi come cronaca autobiografica dell’intensità in cui si vivono e si perdono le ore a sedici anni, tra viaggi, amici, incontri, in perenne conflitto con il mondo dei grandi. L’autrice non solo si concede ma si arroga il pieno diritto di parlare di vita, di morte e di amore, con tutta la drammatica e assoluta tragicità riservata solo all’adolescenza – «Dedico sempre alcune serate al mese per le tristezze, i suicidi, i sangui e le morti» – fedele a quel lusso della giovinezza per cui le è concesso più ardore di verità: è con il sopraggiungere dell’età adulta che una certa forma di pudore invade tutto e ci ricopre di ridicolo.
Nella prosa di Ore perse Caterina già dimostra la stoffa da romanziera dal fondo lirico, grazie alla piena padronanza del linguaggio e la ricerca del suono e del ritmo che fa vibrare le parole oltre il significato: i resoconti dimessi di un quotidiano fatto di serate a discutere girovaghe tra le strade di Roma si alternano a momenti di indugio composti di squarci lirici e lapidari, degni di chi con la carta ha già una lunga e trascorsa esperienza: «Perché tutti, in fondo, abbiamo paura di due cose sole: il fascismo, e l’amore».
La liricità di Ore perse non rimane in potenza ma è preludio, il sintomo di una volontà poetica che anni dopo acquisterà forma matura in una serie di poesie, alcune delle quali compariranno sulla rivista Il lettore di provincia, per poi confluire, dopo la morte dell’autrice, in una scelta in forma privata. Soltanto nel 2015 nottetempo ha raccolto le poesie di Caterina Saviane e le ha pubblicate nella collana diretta da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio.
appénna ammattìta: è questo il titolo della raccolta, è poesia ad alta voce, che può essere gustata pienamente recitando verso per verso, abbandonando l’orecchio e la ratio ai giochi di sonorità fatti di rimbalzi, assonanze e dissonanze, calembour, in nome di una totale anarchia della parola, laddove anarchia è caos e vita.
In questi componimenti Saviane disobbedisce a qualsiasi forma cristallizzata, che sia sociale o che sia linguistica, con versi che scartano la norma grammaticale e si gettano nell’ardente materia creativa pregna di significato e suono – e al diavolo i vetusti e immobili significanti!
«di sempre in mai
di palo in frasca
in tasca mi toccaccio il filòs greco
e che strage sia del tempo d’ora.»
C’è una trama che lega le due opere di Saviane fatta di immagini ricorrenti, acerbe nella linearità di Ore perse, radicate nel caos più maturo di appénna ammattìta, tra le quali si affermano come fondanti il senso della lotta, l’irriducibile sentimento di diversità, il vincolo con la scrittura, il richiamo della morte.
In queste poesie in cui le trame sono «strapazzàte» e le notti «strapassàte», Caterina Saviane racconta prima di tutto di sé, come una «febbricitante iperbole tra i sedicenti sani», «tantalica», chè da Tantalo ha ereditato il suo supplizio e l’implacabilità, «ché mai s’acquetì…», di una vita inseguita sempre da un’insofferenza turbolenta: «e non poetrò mai stare – andare a stare altrove\ assillo di cerchiante azzurre ovunque io vada».
Nella raccolta ritorna a più riprese il legame concreto presente tra l’autrice e la sua poesia, da una parte descritto come presupposto originario – «un pensiero innato \ ièratico da “ieri”» – dall’altra percepito in quanto legame fisico, se non carnale, all’interno del quale la Poesia si fa amante e diventa ricettacolo di un amore inquieto e non pacificato – «rendimi l’afflato di te – còrva alle mie spalle \ di leggera pressione seduttrice» – che echeggia l’amor crudele della nostra tradizione fino a portare in campo Dante e il suo «amor che nulla amato amar perdona». Leggendo le poesie, si ha l’impressione che Amore sia un fondo a cui l’autrice gira intorno, sfiorandolo tra desiderio, ricerca e rifiuto, sempre all’erta perché è facile scambiare «gli AMori colle serpi» o «colla gente», nel dubbio frequente su cosa resta se «dopo l’amore?» succede di «non riconoscerLO neppure?».
In grado di cogliere la polisemia di ciascuna parola, in appénna ammattìta Caterina Saviane evade «dalla fortezza del vocabolario», spingendo la lingua fino al suo limite estremo, contornata da una sintassi sempre scardinata e da prodezze verbali che rendono la sua poesia unica: vagante e stravagante. È una poesia libera ché saltella da un verso all’altro secondo un ritmo fatto di associazioni di idee e di suoni – «di palo in frasca» dichiara un verso – e allora «il filo del discorso» non è altro che un «filologico, filo logico» trasformato in «fili d’erba». I versi di appénna ammattìta ballano una danza vertiginosa, balzando da un estremo all’altro a piedi pari, sconquassando il lettore e facendolo perdere nel gorgo di una materia poetica che si fa uragano.
Caterina Saviane uragano, come i suoi versi in tempesta, che trovano pace solo in una tregua provvisoria e artificiale, quella della droga: «di sera dopo sera \ imbottirmi dell’allegria posticcia \ di degradarmi al punto di gioire». I riferimenti alla tossicodipendenza, che ammalò gli ultimi anni di Caterina fino alla dose finale responsabile della sua morte una notte del 1991, sono vaghi e trasfigurati nell’ambiguità linguistica della sua poetica. Compare il «vizio. \ Il vizio Che si fa – fatale! Un vizio esaltato dal calore \ – come un odore al sole.», mentre si è «sfatti di “ero brava” – come certi vecchi di sé – \ in memoria dell’eburnea pista», fino alla chiara ammissione: « – sono fatta \ da sola da droga – da carne moneta \ di metallo sonante».
Tra frequenti onomatopee, neologismi e giochi di parole, risultano rari i momenti in cui la poetessa esce allo scoperto e accantona per un attimo – una manciata di versi – lo scudo protettivo di una poesia criptica, rivelando una voce franca e diretta in tutta la sua fragilità e stanchezza per la fatica di una vita che sembra solo una salita – «Saviane: SPARATI UN COLPO per la stanchezza \ di mille piani a piedi – a piedi a piedi» – che può essere affrontata solo attraverso il pensiero di una Morte a suo modo dolce e desiderata:
«Dài, ti prego, tiénimi compagnia,
stanotte – metti che io muoia –
stanotte – che sia l’ultima notte
la più bella? – che muoia.»
Copertina: Vita senza sfumature – 100 x 70 (pastello) Rossella Esposito