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La tragedia dell’Europa. Un occidente prigioniero di Milan Kundera



Nell’anno in cui, dopo la fine presunta del Novecento, la guerra si è riaffacciata in Europa, traendo con sé il carosello di vecchi fantasmi, su tutti quello dell’imperialismo russo – ma anche la sorte degli stati nazionali più fragili o ancora il ruolo dell’Europa occidentale e, più in generale, la nozione stessa di Europa, risulta intensamente contemporaneo leggere le parole scritte da Milan Kundera negli anni più densi della Guerra Fredda in merito alla situazione politica della Cecoslovacchia.
Alla vigilia della Primavera di Praga, nel 1967, si tenne infatti il IV Congresso degli scrittori cecoslovacchi in cui gli intellettuali attaccarono fortemente l’imperialismo sovietico, la sua censura, la sua ideologia sentita come prevaricazione della identità culturale, interrogandosi anche sul senso e sulla responsabilità della propria esistenza nazionale e, allo stesso tempo, rivendicandola orgogliosamente.
Di questa edizione del Congresso che consumò una definitiva rottura tra l’élite culturale e il regime sovietico, fu protagonista indiscusso Kundera con il suo discorso La letteratura e le piccole nazioni, i cui nodi centrali continueranno ad essere riproposti e rielaborati anche successivamente, in un clima più rassegnato, ma pervaso dal fermento di una condizione precaria, raccolti all’interno di un articolo del 1983, Un occidente prigioniero, il quale intitola anche il volumetto pubblicato da Adelphi che racchiude entrambi gli interventi citati, dando prova dello sviluppo coerente e acuto del pensiero politico dello scrittore ceco.

Kundera

Denominatori comuni ai testi sono due tematiche intrecciate tra loro, facce di una stessa medaglia. La prima di esse è l’interrogativo in merito alla legittimità ontologica delle piccole nazioni come la Cecoslovacchia stessa: in uno scacchiere in cui il mondo intero è chiamato a coagularsi attorno a due blocchi contrapposti, ha senso esistere come entità indipendenti oppure sarebbe preferibile abdicare alla propria libertà e lasciare che lingua e cultura nazionali vengano riassorbite all’interno di un’entità politica più vasta e prestigiosa? Nell’attaccare la censura sovietica, Kundera affronta il tema della libertà da un punto di vista laterale, chiedendosi – retoricamente – quanto sia effettivamente importante affrancare la cultura ceca dall’influenza dei poteri che la colonizzano e riflettendo in questo modo sulla storia della sua nazione. A differenza di territori solidi e secolari come Francia o Inghilterra, la Cecoslovacchia è infatti stata sempre sotto la minaccia di un’annessione da parte dei suoi potenti vicini, Germania e Russia, ma i protagonisti del risveglio della nazione, continua Kundera, «hanno messo il popolo di fronte al dovere di giustificare in avvenire la correttezza della loro scelta», o, per meglio dire, optando per la libertà e l’autodeterminazione del popolo ceco hanno consegnato a quello stesso popolo il fardello di dimostrare al mondo – o quantomeno all’Europa – che la libertà acquisita era stata una scelta giusta, un veicolo per lo sviluppo di una cultura che avesse forza e valore all’interno del panorama europeo:

«Il valore culturale del nostro popolo è tale da giustificarne l’esistenza? E a questa domanda se ne aggiunge una seconda: questo valore basterà di per sé in futuro a proteggerlo dal rischio di perdere la propria sovranità?»

Così, nel prendere posizione contro il livellamento culturale imposto dal comunismo sovietico di stampo stalinista – colpevole di aver rimosso e svilito le tradizioni dei territori occupati, ricacciandoli nella periferia del mondo culturale – Kundera si rivolge alla propria nazione, interrogandola sulle sue capacità e possibilità: hanno e avranno le piccole nazioni come la Cecoslovacchia ancora la forza di affermare la propria indipendenza e di dimostrarne il valore attraverso la letteratura e il peso culturale che da essa deriva, mostrando il viso a un mondo sempre impantanato in una paludosa omogeneità?

Proprio la dimensione bipolare dell’Europa del secondo Novecento, spezzata in due blocchi ideologici e culturali contrapposti, è il fulcro del secondo argomento cardine dei testi di Kundera. In relazione al diritto (o meno) all’esistenza delle piccole nazioni, in Europa, l’autore ceco rileva la problematica che tormenta quell’area geografica individuata come Europa Centrale. Nel periodo in cui l’Occidente vedeva negli stati satelliti dell’Urss solamente una parte ulteriore di quell’“Europa dell’est”, Kundera, a differenza di una simile vulgata, ribadisce l’esistenza di un’Europa centrale dall’animo totalmente occidentale, la cui incerta esistenza politica e territoriale può essere individuata solidamente nel patrimonio culturale che si nasconde dietro la cortina di lingue tanto complesse quanto poco frequentate.
Adottando una prospettiva storicistica, Kundera fa risalire l’appartenenza degli stati dell’Europa Centrale (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Austria) all’Occidente europeo:

«L’Europa geografica è sempre stata divisa in due metà che si evolvevano separatamente: l’una legata all’antica Roma e alla Chiesa cattolica (segno particolare: l’alfabeto latino), l’altra connessa a Bisanzio e alla Chiesa ortodossa (segno particolare: l’alfabeto cirillico). Dopo il 1945, il confine tra queste due Europe si spostò a Ovest di qualche centinaio di chilometri, e nazioni che si erano sempre considerate occidentali si risvegliarono un bel giorno constatando che si trovavano ad Est.»

Da ciò il dramma degli stati satelliti dell’Europa centrale: situati politicamente ad Est, ma culturalmente ad Ovest; stati la cui storia, anche quella presente – insiste lo scrittore –, reclama a gran voce la propria differenza culturale e non accetta di essere assimilata a quella russa.
È poi sempre in un’ottica storicistica che Kundera contestualizza questa appartenenza occidentale degli stati centrali: era stato l’impero asburgico infatti il grande terreno mitteleuropeo e multiculturale di crescita e sviluppo delle singole culture nazionali, oltre ad essere stato un naturale baluardo politico contro le mire espansionistiche della Russia. Agli occhi di Kundera, l’Europa centrale era stata nella storia un precipitato stesso dell’idea di Europa, «il massimo di diversità nel minimo spazio» a cui si opponeva proprio la Russia stessa, da sempre intenta alla realizzazione di una monarchia universale, tesa a trasformare tutte le nazioni dominate in un unico popolo russo – ed è proprio questo tratto imperialista a sottrarre la Russia, in età contemporanea, alla nozione di Europa intesa come coesistenza e rispetto delle diversità e a farne un vero e proprio anti-occidente, una civiltà aliena.

E però il J’accuse di Kundera non è solamente rivolto contro l’Urss che al momento della stesura dei testi rappresentava ancora un colosso “nemico” con cui istituire un necessario braccio di forza, ma ha come bersaglio anche l’Occidente, dalle cui carte sono sparite proprio quelle piccole nazioni che hanno animato la parte più densa della storia culturale europea del Novecento, dando i natali a personaggi come Freud, Husserl, Mahler, Kafka e tanti altri. E così, se è vero che l’Europa non ha notato la scomparsa del crogiolo culturale di questi stati perché non lo sente come elemento di appartenenza, su cosa si fonda allora – se non più sulla cultura – l’identità europea?

Ecco la domanda che dalle pagine di questo volumetto Kundera lancia anche all’Europa dei giorni nostri, che hanno reso palese come le istanze russe non siano crollate insieme all’Unione Sovietica, ma siano rimaste latenti e serpeggianti, un fantasma dai poteri indeboliti, pronti a palesarsi nuovamente al tempo opportuno.

Benché chiaramente la situazione tra Russia e Ucraina sia differente rispetto al tempo in cui Kundera scriveva e pronunciava questi testi (a partire dal non facile rapporto tra Ucraina e UE), la situazione geopolitica presente viene interrogata a fondo dalle domande contenute in questo libro.
Le parole con cui Kundera apre il suo articolo Un occidente prigioniero sono infatti quelle del direttore dell’agenzia di stampa ungherese che nel 1956, lanciando l’ultimo messaggio disperato prima di morire sotto i colpi dell’artiglieria sovietica, disse che il sacrificio in atto era compiuto per l’Ungheria e per l’Europa. E se è vero, come sostiene l’autore, che una frase simile non potrebbe mai essere stata concepita a Mosca o San Pietroburgo, ma varrebbe per Budapest, Praga o Varsavia, la vera tragedia non è solo quella che coglie gli Stati fragili, queste piccole nazioni sgomitanti e asfissiate, in un panorama sempre più globalizzato, ma è quella dell’Europa stessa, divisa, oggi più di ieri, tra l’essere il giardino recintato del capitalismo oligarchico e l’erede dei valori ereditati dal passato (democrazia, libertà, accoglienza, coesistenza, pluralismo, multiculturalità) che sempre più spesso fatica ad applicare.
Ecco che allora le parole di Kundera, più attuali che mai, tornano a interpellare il senso e il significato di ciò che chiamiamo Europa e gli ideali che ad essa sottoponiamo; un discorso sempre più urgente e necessario per indirizzarne il futuro.


Immagine: copertina libro

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