«[…] i loro corpi duri e in movimento che io osservo, si muovono in movenze che non conoscevo, in altre che riconosco, raccontano storie che non so, dicono storie che potrei piuttosto inventare e ricucire, curiosa curiosona, curiosella come sono, e la loro apparizione rompe il tempo: mi rompe il tempo, mi disorienta in una parata confusa di corpi e fantasmi».
A parlare è la giovane protagonista dell’esordio con effequ di Simone Marcelli Pitzalis, Questo è il corpo. È questo uno dei casi in cui si può a ragion veduta parlare senza remore di sperimentazione letteraria e linguistica: la materia narrativa è, in questo romanzo, totalmente al servizio del messaggio. Ma di che messaggio si tratta?
Ci troviamo in un ex colorificio della periferia di un non meglio precisato paesino italiano, dove sopravvive un variegato gruppo di esseri umani che, per ragioni diverse, sono braccati dalla società perché non conformi, inadatti a rientrare in categorie ben definite. «Drogati, pigri, travestiti», come animali, provano a adattarsi all’ambiente inospitale e ostile e a muoversi, tra continue scosse di assestamento, conducendo un’esistenza che mai potrebbe ottenere il benestare della “gente normale”.
Nel microclima ricreato all’interno di questo capannone, in cui la polvere si mischia all’aria e impregna anime e indumenti, la protagonista è però a sua volta distaccata dal resto del gruppo: come un’isola, quella sulla quale dimora, che le concede uno sguardo privilegiato – uno sguardo doppio, indagatore, giudicante – sulle cose e sulle persone. Il romanzo altro non è che il resoconto anomalo di quello che ha visto (e vissuto).
La spinta a parlare, a svelare il noto e l’ignoto, è il ritrovamento di una delle compagne, Veronica, in stato catatonico, senza alcuna spiegazione. Solo un corpo fisso, immobile, spaventosamente inerme ma vivo a suo modo. In mancanza di segni evidenti di un trauma subìto, non è possibile intervenire, provare a chiedere aiuto: «Nessuno crede a una vittima che non ne porta i segni, soprattutto se trans».
Un corpo anomalo attira su di sé uno sguardo anomalo, di sospetto e disprezzo, ma è nella distorsione che risiede l’essenza della vita di quelle come Veronica, come la protagonista. La loro identità esiste solo laddove si scontra con un altro modello: è nella contrapposizione delle differenze che gente così trova la propria definizione.
Autodefinirsi, poi, è operazione ancora più inaccessibile, perché implicherebbe disporre di un linguaggio che è invece ancora inadatto a cogliere il cambiamento dei corpi, a dar voce a quella precarietà fisica e psichica.
In questa continua disambiguazione tra ciò che si è, ciò che la lingua è in grado di riconoscere e ciò che gli altri di fatto vedono, risiede il cuore di questo romanzo e il suo messaggio. È una dichiarazione: l’identità è solo una costruzione fittizia, in balìa di troppe variabili perché possa essere incasellata in un posto o in un altro. Ribadire questa infattibilità è sancire un nuovo sistema valoriale che si esprime attraverso un linguaggio ripetitivo, confuso, ambiguo.
In questo sacramento quasi religioso – «questo è il corpo» recita il titolo – che vita e natura impongono, il corpo diventa il lasciapassare per una dimensione altra in cui non importa quanto è lasciato fuori ma semplicemente lo spazio che si riesce ad abitare attraverso la propria fisicità. È una sorta di rivisitazione del noto qui e ora, traslata adesso a una inedita modalità di stare al mondo.
«[…] nel fondo c’era invece solo la mia lingua personale, una massa mostruosa e semovente, una massa difforme e tumorale, nel fondo solo questa mia lingua brutta brutta e cattiva e incodivisibile che non sa dire nulla, è solo un vociare che si incurva che si incurva e urla e non arriva nemmeno a dire me, chi sono e cosa voglio, o la verità del mio bambinone timidone e della mia bimba cattivella, che restano furiosi e incomprensibili, si alternano come giullari, non sanno trovare una parola che dica un io duro, un io duro come un sasso.»
In copertina, foto di Jana Sabeth su unsplash