Dedicato a F.
«La Lucania era dunque una testimonianza di vita, dell’esistenza di un mondo vero,
fuori dalla storia e dai suoi orrendi risultati.»
(Carlo Levi, Quando scrivevo il Cristo, in Le tracce della memoria, a cura di Maria Pagliara, Roma 2002, p.125)
Ho scoperto Carlo Levi in Lucania. Guardando le montagne dalla finestra dell’albergo, a Potenza. Sulla strada fra Potenza e Matera: una successione indescrivibile di paesaggi, di cieli diversi. A Matera, appena lo sguardo è andato alla gravina, e ai Sassi, dal davanzale accanto a Palazzo Lanfranchi.
È una scoperta che da quei giorni dura ancora, ogni giorno che passa dentro gli occhi e la memoria. È una scoperta che porta con sé la curiosità di leggere e sentire, ma non meno nostalgia. E forse, soprattutto, una strana affinità per la quale non riesco a trovare parole. Ma forse un giorno o l’altro le troverò, chissà.
A dire il vero, Carlo Levi lo incontro faccia a faccia ogni volta che entro in casa, subito dopo aver girato la chiave nella toppa. È un gesto pesante, vecchio: nella mia casa non ci sono chiavi elettroniche, che basta sfiorare una piastra e tutto si apre, o si chiude. La mia è una vecchia chiave massiccia, che trova una toppa lunga e stretta e una maniglia che cigola ogni volta. Ma appena la porta si apre, sull’angolo di parete che mi trovo di fronte, ci sono due volti, uno dentro l’altro, che si guardano in eterno ma forse senza vedersi davvero, solo respirandosi a vicenda: li ha disegnati Carlo Levi con un carboncino. I due volti, insieme, sono una specie di luna.
Naturalmente so chi è Carlo Levi: sua sorella Luisa curò i traumi di mia madre ragazzina sopravvissuta allo sterminio, nell’immediato dopoguerra. Sua cognata era una grande amica di mia nonna. Gli ebrei di Torino sono e sono sempre stati quattro gatti: o si è parenti o si è amici. Raramente tutte e due le cose. E poi, abito davvero a pochi passi da “via Bezzecca, sul Monte dei Cappuccini, nell’ombra nera del noce, di quel grande albero dai frutti favolosi”, dove Carlo Levi ha trascorso l’infanzia.
Naturalmente avevo letto Cristo si è fermato a Eboli, da ragazza. Ai tempi miei, ancora lo si studiava a scuola. Poi a poco a poco è come se la sua scrittura avesse subito una specie di damnatio memoriae, oscurata da quella di un suo grandissimo omonimo e concittadino – Primo. Lui è diventato il canone, la pietra di paragone, la lettura imprescindibile. Giusto, vero. Ma Carlo Levi, nella sua Torino, è come sparito dagli orizzonti letterari. È rimasto un pittore di casa nelle dimore ebraiche, un intellettuale sfuggente, lontano nel tempo e nello spazio. Per questo io, ebrea torinese, ho scoperto Carlo Levi prima a Potenza e poi a Matera, ma forse soprattutto nel viaggio interminabile che avrei voluto non finisse davvero mai più fra queste due città, nell’avvicendarsi del cielo, dei ricordi, nella nostalgia pungente che qui ti prende e ti fa sentire migrante, venuto di lontano e a lontananze ignote destinato.
In terra di Lucania ho scoperto che esiste un “levismo” e un “antilevismo”, perché lui è stato ed è ancora il canone dell’identità, il modo di guardare al passato e al futuro di questa regione. Lui ha dato coscienza, lui ha guardato i contadini e la miseria e la dignità e la rassegnazione e la tenacia e i calanchi come nessuno prima di lui. Ma da quale distanza? Da vicino, e ha visto giusto, con ragione politica e comprensione, dicono i levisti. Con paternalismo, con uno sguardo estetizzante, condannandoci tutti a questo destino di condanna, e basta!, dicono gli antilevisti.
Io, a dire il vero, non so proprio da che parte stare. O meglio, non sto da nessuna parte perché, proprio come dice lui parlando di Matera, «per me, sia che io ci vada, sia che ci ritorni con il ricordo, o che qualche immagine me la rammenti, essa mi pare, più di ogni altra, un luogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo, tanta vi è l’evidenza delle parole, dei gesti, delle condizioni umane, la rivelatrice espressività della vita. Qui ritrovo la misura delle cose, la concretezza dei pensieri e delle immagini e, in quella brulla prigione di pietra, il senso della sempre nascente libertà».
A me è capitato proprio così, quando ho visto Matera per la prima volta. Una commozione oscura, uno stupore nuovo di fronte no, non a un presepe vivente. Nulla di suggestivo, macché. Matera mi ha fatto l’effetto di un luogo forte, prepotente, materico se mi si perdona il bisticcio. Non ho trovato né ancora trovo le parole per dirlo. Ma ho anche capito perché: perché è il posto che assomiglia di più a Gerusalemme al mondo. O meglio, l’unico posto che le assomiglia. Anche qui la pietra, che pure è di natura tutta diversa da quell’altra, riflette la luce invece di assorbirla. E c’è questa prepotenza di essere, fare storia.
Ma non è solo Matera. È tutto che qui, in Lucania, ha questa forza di fare, ed essere, storia: «La tensione interna di questo mondo è la ragione della sua verità: in esso storia o mitologia, attualità e eternità sono coincidenti». E allora, sono levista o antilevista? Non lo so e forse neanche mi interessa. Però c’è qualcosa di profondo e struggente al tempo stesso, che mi fa ritrovare nelle sue parole esattamente quello che sento, quando sono in Lucania. E forse ancor di più quando gioco di memoria con quei luoghi. Con i ricordi e la nostalgia e il desiderio e la paura di tornarvi, perché poi so che dovrò di nuovo andar via. È una specie di attrazione, sì. Una fascinazione che non ha nulla di estetico. Non è la bellezza di questi luoghi, che mi avvince. È qualcosa di intimo, direi atavico. Una specie di comunanza, di affinità che credo di riconoscere nelle parole di Carlo Levi perché le sue parole sono lo specchio perfetto di ciò che sento, ricordo, vivo. E allora forse c’è in noi davvero qualcosa di atavico, in questo amore per la Lucania – perché di amore si tratta, fuor d’ogni dubbio. C’è forse in noi un gene vagante dentro la spirale del nostro DNA che ci porta qui, in questa bellezza forte e vera e immobile, come se fossimo sempre stati in cammino, da millenni e millenni. «Vai nel luogo che ti dirò», ingiunge Dio ad Abramo, e lui risponde solo con un «eccomi» dall’eco infinita, ai quattro angoli del mondo.
Siamo tutti erranti, e qui, in questa terra di Lucania che sto imparando ad amare con e grazie a Carlo Levi, qui si sente così forte, che siamo tutti erranti. E «per le antiche giravolte della memoria» si torna ogni volta, «al mio paese di Aliano, sui coltelli dei calanchi».