Vincent Lindon, durante la cerimonia di premiazione del 75esimo Festival di Cannes, afferma che la giuria, di cui è stato il presidente, ha preso le decisioni in perfetta armonia. Gli crediamo. Premi distribuiti come ostie, due i parimeriti. Ci chiediamo se questa armonia, non sia che conciliante indulgenza, se non promozione e riparo dalle polemiche.
Ci stupiamo e non ci stupiamo per il vincitore della Palme d’Or: The Triangle of Sadness dello svedese Ruben Ostlund, già vincitore nel 2017 con il bel The Square. Almeno non è un film terapeutico. Però… Dopo un incipit che dà l’euforia, come abbiamo raccontato, nella seconda parte si va alla deriva. Non solo, il cinismo rischia di divenire maniera. Il tono è satirico-grottesco, l’intenzione è quella di provocare, il refrain, così simile al Parasite Palme d’Or nel 2019, la lotta delle classi sociali: i super poveri e i super ricchi, con annesso ribaltamento catartico. Sopravviveranno i ricchi, come vuole il presente, o i forti, come vorrebbe la natura? Wertmüller docet.
Molti erano convinti vincesse Close, del belga Lukas Dhont, Caméra d’Or quattro anni fa con il suo primo lungo: Girl. Close è la storia di un’amicizia maschile, fra dettagli e introspettività.
Tuttavia, ha vinto il secondo premio, il Grand Prix, condiviso con Stars at Noon della francese Claire Denis, con Margaret Qualley, figlia d’arte dell’attrice Andie MacDowell e ganzissima seguace di Manson in Once upon a Time in Hollywooddi Tarantino (preferiamo dimenticarci della serie tv Maid, epopea della sfighitudine anche se sei figa, intelligente e hai tutti i denti).
Felici per il Prix Interprétation Féminine. Vince l’iraniana, ora cittadina francese, Zar Amir Ebrahimi per la sua interpretazione nel thriller poliziesco Holy Spider, regia di Ali Abbasi, di cui abbiamo scritto.
«Ho fatto molta strada per essere su questo palco» afferma Ebrahim alla cerimonia. Indossa un vestito a cui sembri manchi solo una veletta. Ma a lei perdoniamo tutto. Trasferitasi a Parigi sulla scia di uno scandalo di sex tape, la guardiamo e un po’ ci commuoviamo. Siamo delle sentimentali. Brava. Ci siamo innamorate del personaggio in Holy Spider. Non vorremmo, ma alla fine intrecciamo la sua storia personale a quella della protagonista, una giornalista tacitamente sovversiva, un mix fra Masih Alinejad e la ragazzina che in Persepolis ricercava la libertà, negata dal regime, indossando un paio di scarpe da ginnastica e ascoltando la musica punk. «Questo film parla delle donne e dei loro corpi» ha aggiunto. «È un film pieno di volti, capelli, mani, seni e sesso, tutto ciò che è impossibile mostrare in Iran.»
Vincitore della miglior interpretazione maschile, il sudcoreano Song Kang-ho, nella memoria dei cinefili da Parasite. È uno dei protagonisti nel film, agrodolce, del giapponese Broker, diretto da Hirokazu Kore-eda (Shoplifters). Road movie legato alle baby box sud-coreane in cui le madri in difficoltà possono lasciare i propri figli. Tutto nacque dall’idea di un pastore, Long Jong-Rak. Avevamo tante speranze. Siamo rimasti un po’ delusi. I villain non sono per niente villani, tanto che non gli crediamo, e il finale è fin troppo arrendevole. Si gioisce, però, come in Shoplifters, per una sentimentalità priva di sentimentalismo.
Per gli italiani, Otto montagne, per la regia dei belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch e con Luca Marinelli e Alessandro Borghi, vince il Premio della Giuria, ex aequo con EO del polacco Jerxy Skolimowski, che ringrazia i suoi asini dal palco. Sì, perché, Eo ha come protagonista un asino.
Ci dispiace che nulla vada al bel Les Amandiers di Valeria Bruni-Tedeschi. Troppo vivace, autentico, non alla moda?
Lo stesso per Nostalgia di Mario Martone, con Pierfrancesco Favino nelle vesti di Felice. Lo abbiamo visto. Martone è maestro di regia. Il suo teatro è nel suo cinema. Ci si immerge. La storia, basata sull’omonimo romanzo di Ermanno Rea, parla a tutti, ma soprattutto, forse, agli espatriati. Non possiamo, quindi, non pensare a La luna e i falò di Cesare Pavese. Scusateci. Come Anguilla, anche il protagonista di Nostalgia lascia l’Italia da giovanissimo. Una crescita che spezza la propria identità, senza lasciare, però, mai andare via l’altra. La prima. L’originaria, nel caso di Felice legata al Rione Sanità. La maledetta nostalgia di casa. L’essere in una perenne terra di mezzo. Con una premessa che convince, ci perdiamo poi nelle motivazioni che seguono. Non capiamo più Felice. In sala, a Cannes, ci avvicinavamo alla fine continuando a chiederci: “Perché?”. Non riveliamo il motivo, non vogliamo spoilare.
Ma Nostalgia ci sembra un, seppur meraviglioso, peccato.
«Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti»
Cesare Pavese, La luna e i falò
«Ecco dove avrebbe voluto trovare casa, perché lì la Sanità sa come da nessun’altra parte di ventre materno, primogenitura, principio di un lunghissimo passato mai passato, silenzio e tumulto di un fuoco che continua a covare sotto la cenere.»
Ermanno Rea, Nostalgia
Photo Credits
Copertina: Zhifei Zhou tramite Unsplash
Frame da Triangle of Sadness: Platform.