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Di vortici e stati di grazia. Il cinema di Valeria Bruni Tedeschi



Un’aspirante drammaturga che osserva la bara contenente la salma del padre che non riesce a entrare in aereo. Un’attrice che si getta nella Senna e nuota per allontanarsi dai drammi del palcoscenico e della vita. Un’attrice che ha abbandonato le scene che osserva un albero del giardino di famiglia mentre viene abbattuto. Una regista che, finito di girare il suo quarto lungometraggio, si perde insieme ad attori e fantasmi in una nebbia inarrestabile. Sono le scene finali fatte di attese e di fughe – dal reale e dall’inconscio – dei film diretti da Valeria Bruni Tedeschi, volto principalmente noto per il suo lavoro davanti e non dietro alla macchina da presa. Quattro film: È più facile per un cammello…, Attrici, Un castello in Italia e I villeggianti, girati in quindici anni, sono i tasselli di un mosaico complesso che parte dall’autobiografia e spiega le ali verso l’universalità dei sentimenti e delle emozioni. Bruni Tedeschi scrive, insieme alle  sue fedelissime co-sceneggiatrici, Noémie Lvosky e Agnès De Sacy, personaggi, ambienti e drammi famigliari che in superficie ricalcano le sue esperienze di vita, che vivono i suoi drammi e le sue perdite e poi in esse si inabissano dando origine a una consequenzialità di vicende tragicomiche che analizzano e interpretano le sfumature del quotidiano, del pubblico e del privato. Una quadrilogia della vita che non fa sconti, che smussa e allo stesso tempo affila gli spigoli di esistenze insoddisfatte giocando con luoghi comuni – anche intratestuali – per esorcizzare e criticare. Ne escono ritratti spietati, grotteschi, che esibiscono i tanti volti della ricerca della felicità.

Valeria Bruni Tedeschi

E alla felicità tutto è riconducibile, lo sostengo nel volumetto Le tourbillon de la vie, edito nella collana digitale Fotogrammi di Bietti, e la regista stessa me lo conferma nell’intervista che arricchisce il suddetto saggio. Il tratto comune delle quattro antieroine, protagoniste dei film di Bruni Tedeschi, è il loro desiderio di raggiungere una felicità che l’incomprensione, l’inadeguatezza e l’insoddisfazione del presente non concede loro. Sono donne a cui la vita sembra aver dato tutto ciò che di materiale si può desiderare, eppure proprio questi beni (materiali) sono germoglio di crisi esistenziali: Federica in È più facile per un cammello… si confessa a un prete che più somiglia a un analista, e rintraccia la causa originaria del suo malessere nella sua troppa ricchezza, quella con cui viene identificata la sua appartenenza sociale, e a causa della quale la sua professionalità non viene presa sul serio. Questo secondo punto, quello sulla professionalità, sembra quasi essere presagio di un giudizio ricorrente avanzato dalla critica italiana – non dalla francese o dalla statunitense – verso una filmografia che si ripete, che non dice nulla, che riflette su problematiche futili, estranee allo spettatore medio. Un errore grossolano che mette in luce il pregiudizio e l’incapacità di guardare oltre le apparenze. A esclusione della ricchezza, gli altri temi cardine, ovvero la perdita, la maternità mancata, l’orologio biologico che incalza, l’assenza di un amore corrisposto e fondativo, la presenza di una famiglia atrocemente nemica, messi in scena con arguzia e profondità, su un fondale teatrale popolato da fantasmi e scheletri nell’armadio, ricalcano e donano dinamismo ai personaggi di una commedia umana variegata e comune.

C’è una grammatica dei sentimenti e della gestualità, rituale e a tratti esasperata, da cui prende vita una maniera di esprimersi naive e travolgente dove tutto è calibrato. Gli sguardi dimessi, persi nella tristezza infinita della solitudine sono contrapposti alle grida smodate e liberatorie, sussulti di vitalità repressa che torna a galla quando sfiora la crudeltà del reale. I silenzi contemplativi vengono risucchiati ed annullati dai bulimici e incespicati flussi di parole che tentano di interpretare stati d’animo antitetici, inascoltati e inespressi. Sono picchi e abissi, un’altalena destabilizzante di fotogrammi del vivere che tende a culminare in stati di grazia narrativi, poetici e formalmente rigorosi.

Valeria bruni Tedeschi
Scena de “I villeggianti”

Quattro lungometraggi sono sufficienti a comporre un mosaico prezioso e sfaccettato, tutto da scoprire poiché ad eccezione di I villeggianti, la distribuzione nostrana si è sempre dimostrata troppo parsimoniosa. La regista sembra essere giunta a un punto di svolta – o forse è solo cambiata la prospettiva di analisi: il suo nuovo film Les Amandiers, in concorso al 75esimo Festival di Cannes, punta a un racconto corale in cui i giovani protagonisti la vita devono ancora scoprirla: sono infatti gli aspiranti attori che nel corso degli anni Ottanta superano il provino d’ammissione all’École des Amandiers, scuola di teatro fondata a Nanterre da Patrice Chéreau e Pierre Romans. Una nuova partenza da una pagina di diario privato – Valeria Bruni Tedeschi frequentò la scuola di Chéreau – per spingersi verso una sempre più complessa e stratificata analisi del vortice della vita. Dopo aver raggiunto, con un percorso tortuoso, una precaria ed effimera stabilità emotiva con la sua quarta “protagonista adulta”, si appresta a tornare indietro, forse alle origini di quei personaggi che maldestramente, eppure autenticamente, si allungano e stringono la mano nel passaggio da una fase all’altra dell’esistenza.

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