La scena si svolge in una grande fredda e malconcia stanza d’ospedale, due uomini soli, un padre e un figlio. Il padre nel letto e il figlio con un biglietto in mano e il desiderio forte di portare un poco di felicità al padre, di rincuorarlo con quel breve messaggio. Le cose purtroppo andranno diversamente. Il biglietto verrà stropicciato dalla mano del padre e scagliato via contro quel figlio apparentemente incapace anche solo di capire la sostanza delle cose, della vita e del potere.
Questa scena l’abbiamo vista al cinema, nel film Hammamet di Gianni Amelio, ma prima ancora avremmo potuto leggerla nel bellissimo libro Route El Fawara Hammamet (Sellerio) di Bobo Craxi, scritto insieme a Gianni Pennacchi solo tre anni dopo la morte del padre. Il libro è un resoconto accurato dello sguardo di un figlio verso il genitore, il reportage intimo di uno sguardo finalmente libero di guardare un padre troppo a lungo lontano e sfuggente.
A trent’anni dallo scandalo di Mani Pulite, è impossibile scindere la figura pubblica di Bettino Craxi da quella privata ed è questa forse la condanna vera e peggiore dentro la quale piomba lo statista, abbandonato dai presunti amici e dai leccapiedi di turno e costretto da un’esistenza scialata in nome della politica a fingersi ancora capo, ad essere ancora capo e solo a tratti e faticosamente, e solo nel corpo stremato, un po’ padre. Ma è anche grazie a questa inossidabile forma di capo che per certi versi Bobo ha potuto osservare quest’uomo che si nega ostinatamente dietro ai discorsi, alla storia e alla politica. È bucando la tela di un potere pubblico che è possibile svelare la tenerezza di quello che è stato probabilmente l’ultimo vero capo partito di questo paese sempre in cerca di una nuova Repubblica (sempre peggiore della precedente).
L’esilio di Hammamet sembra così finire in buona parte sulle spalle di Bobo, che si prende in carico le rogne del padre come farebbe un figlio, ma che, proprio per quel ruolo a cui il padre non intende abdicare, si dedica invece come avrebbe fatto un militante di partito ed è in questo incontro che si infrange il dolore perpetuo di un figlio che vede il padre morire, di un militante che vede una comunità straordinaria come quella socialista disfarsi, incapace di reagire e quasi incredula di perdersi per strada.
I figli non hanno l’obbligo certamente di proseguire la strada dei padri e tantomeno di testimoniarla, ma di certo vi si trovano intimamente coinvolti: per il proprio corpo che ne rifà la forma, per la voce che si sovrappone, per il tempo che li trasforma a loro volta in padri. In questo caso la dedizione ha la forma che pretendeva il padre, quella della militanza, ma il risultato va oltre la resistenza e ridefinisce i contorni di una storia che – come ha recentemente detto Bobo – è finita male. Per la politica e per il suo necessario carisma, per la storia e per il partito resta Bettino Craxi, per il resto, per come è finito tutto fino a rotolare a valle resta invece il figlio in un’Italia ridotta all’ombra dalle sue ambizioni post-liberazione e in perenne deficit di fiato e di fiducia.
Resta il figlio a raccontare un’inadeguatezza e un’incapacità mai del tutto propria, rappresentante senza carisma e senza qualità di una storia passata, ma anche di una realtà possibile. Scrive Robert Musil nelle prime pagine de L’uomo senza qualità:
«Se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è.»
In quel messaggio scagliato via da Bettino Craxi non c’erano accuse, non c’erano nemmeno condanne, c’era un augurio. Tuttavia quell’augurio era gonfio dell’inadeguatezza di chi aveva smarrito la misura propria e dell’istituzione, o meglio del Paese che rappresentava. Bobo Craxi non ha di queste paure, si china e raccoglie il biglietto e lo trasforma in una storia intima e pubblica al tempo stesso che riguarda tutti. Una storia reale a cui dare qualche possibilità in più.