Di questo periodo florido per l’editoria bisogna forse dire qualcosa: un’età dell’oro non tanto dettata dai dati in crescita, quanto piuttosto favorita dal proliferare di ripubblicazioni di autrici del nostro Novecento per la cura di alcuni editori indipendenti. È il caso, ad esempio, di Brianna Carafa, o di Amalia Guglielminetti, o di Annie Vivanti, di cui si è a parlato durante l’evento organizzato da Limina nell’ambito di Book Pride. È certamente il caso di Laura Conti, che trova di nuovo spazio nelle librerie d’Italia grazie al recupero ad opera di Fandango.
Laura Conti è stata, in vita, molte cose: medico, partigiana, scrittrice, divulgatrice, ambientalista, al punto che sorprende come una figura di tale caratura, che ricevette nel 1986 il Premio Minerva per la ricerca scientifica, o la cui opera prima si aggiudicò nel 1963 il Premio Pozzale, possa essere sprofondata nella generale dimenticanza.
Il primo libro che Fandango ripubblica è, in effetti, il suo esordio, Cecilia e le streghe. È un romanzo che sfugge senza dubbio alla classificazione per generi e si presta a diventare all’occorrenza dissertazione filosofica, pamphlet politico, saggio scientifico. Quasi sessant’anni prima di quando oggi la leggiamo, Conti anticipa alcune delle tematiche che tuttora sono oggetto della discussione pubblica, dentro e fuori le aule del Parlamento, con una lucidità che ispira, in prima battuta, un’autoanalisi rispetto alle convinzioni che credevamo di avere; in secondo luogo, facilita la costruzione di un nuovo pensiero. Non deve sorprendere l’uso di espressioni così encomiastiche perché basterà sbirciare le prime pagine per capire che quello che si ha tra le mani è un libro diverso.
In un’atmosfera sognante, in cui tempo e spazio sembrano fondersi in una nuova terza dimensione, la Cecilia del titolo si muove cautamente, con sua figlia Tea, in una Milano dalle fattezze diverse, durante «una stanca deserta giornata di mezz’agosto». Queste due figure spiccano nella città vuota e in opposizione l’una all’altra: la madre, trasandata e «lacera», la bambina invece «fiorente», vestita bene, vispa. A vederle da lontano, in una strada del centro, è la protagonista di Conti, di cui non conosceremo il nome: è un medico, si scoprirà, e la narratrice di questa breve ma spietata storia di vita e di morte, «la storia di un indugio sullo spartiacque, di un lungo esitare tra la simpatia e la compassione, […] la storia di una promessa e di una speranza, di una promessa non mantenuta, di una speranza non realizzata.»
L’alone della morte si frappone, sin dal primo incontro, tra Cecilia e la donna: in quel suo «Non c’è nessuno che possa fare qualcosa per me, ormai» iniziale, pronunciato con mestizia e rassegnazione, si pianta il seme della sua esistenza, nonché il bisogno, l’impulso nella protagonista di prendersi carico della sua sorte. Cecilia è toscana e si è spostata a Milano, con la sua bambina, per affidarsi alle cure specialistiche di un luminare della medicina presso una clinica dove, si spera, si potrà ostacolare l’avanzare del tumore. Si parla, dunque, di malattia allo stato terminale e di come le persone possano accogliere o rifiutare questa condizione, che siano loro pazienti o meno.
Attraverso la figura di questa donna che affascina e respinge e che si rivela inclassificabile, persino per chi, come la protagonista, è un medico, Laura Conti mette in piedi una delle più interessanti riflessioni sulla società contemporanea: che valore diamo, da sani, a chi non lo è e non lo sarà mai più? non è forse la vita una lunghissima malattia terminale cui ci avviamo tutti, a nostro modo? perché il malato deve assecondare lo sguardo compassionevole delle persone che la circondano? L’unica differenza tra malati e sani sta forse nella consapevolezza, dei primi, della data del proprio destino («nessuno di noi può sapere di quanto terrore sarebbe capace se un giorno ascoltasse pronunciare, definita nel tempo, la propria condanna»).
Per mano di Conti, il malato sfugge alla sorte pietosa di cui la società intera si fa promotrice quando si trova davanti a un male incurabile e acquista, finalmente, dignità di essere umano: nel personaggio di Cecilia risuona il desiderio ardente di riflettere sul significato della vita o, più semplicemente, di andare al parco con la propria figlia, di annegare nella disperazione per interrompersi, subito dopo, per leggere i fumetti di Paperino.
«Tutto questo mi pareva autentico e vivo, mi pareva che fosse proprio il modo migliore di affrontare gli ultimi mesi dell’esistenza: c’era qualcosa di incantevole nella genuinità di quelle due creature in vacanza, così occupate a essere se stesse.»
Se ogni vita è a proprio modo unica, non esistono ragioni che il malato rinunci alla propria unicità per assecondare la rassegnazione altrui: Cecilia rifiuta di soccombere, ancora in vita, davanti al ruolo che gli è stato imposto, per dare spago a quella cosa preziosa che è il suo stare al mondo.
Il decorso della sua malattia sarà, nel romanzo, dolente, senza sfociare mai nell’autocompatimento. Nell’espediente letterario della protagonista, in cui si scorge un tratto autobiografico della trentasettenne Laura Conti, confluiscono le domande di una donna che esercita ormai la professione medica da dieci anni e che è tenuta, per amore della scienza e degli altri, a mettere in discussione le proprie convinzioni e gli schemi mentali di cui è vittima.
La grande attualità di quest’opera, che pure fu apprezzata da pubblico e critica quando fu pubblicata, rende Laura Conti una voce che non può più restare inascoltata.
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Copertina: Radio Popolare
Ritratto: Contrasto