April Dawn Alison non è mai esistita e vive; Alan Schaefer è esistito e scomparso. Questa storia ruota attorno a un paradosso. Ma prima i dati oggettivi (scarsi), la vicenda. Al Schaefer nacque nel 1941, nel Bronx; si trasferì a Oakland, città californiana sul lato est della baia di San Francisco, dove lavorò come fotografo pubblicitario fino alla morte prematura, nel 2008, a sessantasette anni. Si sa soltanto che fu un ragazzo estroverso e affabile che amava il jazz e il tennis, che imparò a fotografare durante il servizio militare, che si fece sempre più solitario e asociale con gli anni e morì solo, nel suo appartamento. Sappiamo che giravano voci, tra i vicini di casa e nel suo circolo familiare, a proposito di una sua passione per il cross dressing. Si diceva in giro che Al Schaefer si vestisse da donna ma nessuno avrebbe potuto esibire una prova incontrovertibile oppure una conferma da parte dell’interessato. Alla sua morte non lascia nulla in senso stretto o lato (eredi diretti; beni materiali; opere notevoli; atti memorabili) se non un appartamento che, come capita quando si tratta di persone sole che hanno vissuto una vita anonima, viene subito liquidato – gli oggetti che contiene, la traccia stratigrafica della vita che ha ospitato, svenduti o gettati via per liberare più presto possibile il campo. Per una circostanza più o meno fortuita, si salvano quattordici scatole che il liquidatore testamentario pensa possano avere qualche valore. Finiscono nelle mani di Andrew Masullo, un pittore e collezionista che, nel 2017, decide di donarle al San Francisco Museum of Modern Art. Queste scatole, come uno scrigno, contengono più di 9.200 polaroid, scattate lungo oltre trent’anni, quasi tutte autoritratti (o ritratti?) di April Dawn Alison. Non si tratta solo di una raccolta di scatti di un alter ego en travesti: quelle scatole contengono, coincidenti e integrali, una biografia e una vita.
Le polaroid si fanno nel 2019 esposizione e rispettivo catalogo, curato con la consueta attenzione da Mack, casa editrice specializzata in libri fotografici. In questa forma pubblica e diffusa virtualmente su tutto il globo ci raggiungono tradendo il loro destino segreto e recintato tra le quattro mura di un appartamento di Oakland. Ci dicono innanzitutto del caso fortuito, della serie di circostanze che hanno portato alla pubblicazione di una testimonianza eccezionale senza soluzione di continuità artistica ed esistenziale. Chissà di quante non abbiamo saputo, non sapremo mai niente. Da un lato ci troviamo nel campo degli artisti (molto spesso al femminile: Emily Dickinson, Vivian Maier…) scoperti post mortem e che quindi hanno potuto sviluppare una poetica assoluta, impermeabile alle aspettative del mondo, del pubblico, dell’industria culturale; dall’altro è evidente si tratti, nonostante qualche affinità biografica con il caso Maier, di un materiale refrattario alla creazione di un caso pop e di un diario intimo, sì, ma non in prima persona bensì in una terza fabbricata. Non conosciamo neppure le intenzioni dell’autore. Nonostante lo studio compositivo e l’evidente cura formale che si accompagnava a quella espressiva, confermata anche da un vezzoso “April Dawn Avedon” scritto su una delle scatole, Schaefer avrebbe voluto esporre April Dawn o era un segreto da portare nella tomba?
C’è una nebbia congetturale che investe tutto ciò che la riguarda e contribuisce alla sua malia. Al meglio delle nostre conoscenze, non abbiamo neppure dati certi a proposito dell’orientamento sessuale di Al Schaefer. Possiamo quindi serenamente stralciare la questione e parlare di genere come performance che basta a se stessa. Non possedendo alcun virgolettato dell’autore, il saggio che apre il volume Mack, a firma Erin O’Toole, prende in prestito le parole di ‘Bobbie’ dal numero 22 di Transvestia (agosto 1963): «As a man I exist; as a woman I live». Tra-vestirsi vuol dire gettare via l’identità come un fardello che impedisca di provare tutto, tanto nel senso di ‘sentire’ quanto di ‘sperimentare’. Io ora sono questo ma potrei essere anche quello e quell’altro ancora. April Dawn Alison appare un caso di divenire altro, di fabbricazione di identità schizo autosufficiente, improduttiva, non funzionale, non finalizzata – tanto nei confronti della società che disapprova quanto al raggiungimento di qualsiasi soddisfazione antisociale data l’assoluta segretezza del progetto. Come scrivono Deleuze e Guattari a proposito del ‘divenir donna’ del presidente Schreber: «È uno strano soggetto, senza identità fissa (…) che raccoglie ovunque il premio di un divenire o d’una metamorfosi, e che nasce dagli stati che consuma e rinasce a ogni stato. “Sono dunque io, è dunque a me…” Anche soffrire, come dice Marx, è godere di sé. Certamente ogni produzione desiderante è già immediatamente consumo e consumazione, dunque “voluttà”».
Anche questa, però, è una congettura poiché l’autore materiale delle fotografie, a differenza del logorroico Schreber, è muto. Il tema della performance è rinforzato dal tipo di donna che (non) è April Dawn Alison. Dal momento che si tratta di un personaggio non più costretto nella gabbia dell’identità, ella può prendersi la libertà di essere tutte le donne in un parallelo probabilmente involontario e inconsapevole con il lavoro di Cindy Sherman. Alison mette in scena l’intero spettro del femminile, in un reenactment continuato delle immagini tratte principalmente dal cinema, dalla pubblicità e dalla pornografia – ossia dai grandi produttori di immaginario. Alison si presenta indifferentemente sexy e casalinga intenta ai lavori domestici, in un vezzoso abito da cameriera nella struggente serie della festa di compleanno oppure legata e imbavagliata secondo i crismi del BDSM, in calze a rete e gonna a fiori, come una signora di mezza età e una ragazzina. Insieme a quelle del genere sessuale, le coordinate stabilite dell’età, del ruolo sociale perdono qualsiasi gancio con la realtà oggettiva.
È interessante notare come April nasca come catalizzatrice di possibilità infinite e assolute eppure scelga di rimanere sotto il dominio dell’immaginario, si rappresenti secondo le forme della femminilità ratificate dalla società americana sua contemporanea. Ne deduciamo – ma è ancora una congettura – un bisogno di appartenenza e riconoscimento temperato da una sovversione gentile per mezzo della sensibilità genuinamente camp ovvero l’appartenenza piena al campo dell’artificio e l’atteggiamento umoristico, autoironico, distaccato che le pervade – e che, unendosi al senso di solitudine e melancolia, genera il loro particolare clima emotivo. Del resto è proprio in Notes on Camp che Susan Sontag scrive «It is not a woman, but “a woman”». Inoltre, proprio come tutto il camp è, secondo Sontag, completamente apolitico, sarebbe scorretto inserire a forza Schaefer/Alison nella storia militante, consapevole delle lotte per la visibilità transgender.
Fin qui la teoria e le congetture. C’è poi un resto assolutamente ineffabile, irriducibile che si rivolge alla sensibilità individuale per rendere questo corpo di opere qualcosa di unico e altro rispetto a tante esperienze di travestitismo artistico precedenti, coeve, successive e si situa nell’ambito esistenziale. Noi non sappiamo (quasi) nulla di Al Schaefer, l’uomo che non c’era, individuo che probabilmente ha avuto una ricchissima vita interiore andata perduta come lacrime nella pioggia nello sfascio immediato di coscienza e memoria che è la morte, anonimo, solitario everyman, uno dei tanti che si possono riassumere passeggiando in un cimitero: «They were born and then they lived and then they died». In compenso sappiamo letteralmente tutto di April Dawn Alison, la donna che non c’era e che è stata creata, perché tutta la sua esistenza si è svolta davanti a un apparecchio fotografico e quindi è stata integralmente conservata. C’è questo aspetto commovente e vertiginoso della coincidenza precisa di vita e biografia. Scardinate le gerarchie imposte dal senso comune a proposito dei criteri con i quali attribuire realtà a un’esperienza umana, visitare l’esposizione del 2019 o sfogliare il catalogo Mack equivale a osservare lo squadernarsi di una vita intera.
Osserviamo come un effetto anamorfico un corpo che invecchia, i tratti somatici che cambiano e lo sguardo, la prossemica farsi più malinconica, a tratti smarrita, impacciata e quasi implorante, mentre le situazioni, i costumi di quella creazione che April Dawn rispondono soltanto a una volontà, non all’anagrafe o a limiti spaziotemporali. Sempre più spesso, col passare del tempo, lo sguardo in camera somiglia a quello di un coniglio che attraversa la strada verso i fari abbaglianti che gli arrivano contro – e spezza il cuore. Nel ritmo intrecciato di gioia e tragedia, di confessione e artificio, vediamo una danza dionisiaca, appunto una vita autentica, piena. In questo senso April Dawn Alison è un esperimento di libertà metafisica assoluta. Chissà se la festa con i palloncini colorati e i festoni coincideva con l’effettivo compleanno dell’uomo che fotografava. Non lo sappiamo e non importa: il bello è proprio che, nell’utopia escapista da paese delle meraviglie, il compleanno di April Dawn Alison può essere ogni giorno. La maggior parte delle polaroid appare scattata con luce artificiale, di notte. La nozione di tempo libero acquisisce un significato duplice. Finito il lavoro, Al Schaefer correva a chiudersi in casa per smettere di esistere come tale e dedicarsi interamente al suo progetto. C’è l’ossessività maniacale dei reclusi – Proust che scrive la Recherche tra pareti foderate di sughero; il palazzo ideale del postino Cheval – senza la grandeur dell’intenzione di uscirne con un’opera che strabilierà il mondo o lo ribalterà (come detto, a quanto ne sappiamo April Dawn Alison non era destinata a essere conosciuta ma ovviamente anche questa è una congettura).
Creare uno spazio espressivo può coincidere con la creazione di una persona che ha vita propria e mette in gioco le nostre nozioni precostituite a proposito di cosa è reale. È reale ciò che ci commuove o ciò che è iscritto all’anagrafe? La scissione da ricomporre secondo investimento emotivo tra esistenza e vita, come espressa da ‘Bobbie’, vale per il performer come per gli spettatori della performance. C’è infine un ulteriore elemento che genera la malia della vita-tutta-intera che ci si spalanca davanti ovvero il fatto che si tratta di una vita priva di elementi prosaici. April Dawn Alison ci appare una rivolta – sterile, segreta – non solo contro il dato fisico (il genere assegnato alla nascita) ma contro la realtà intera: tutto è gioco e posa, è erotico e comico, e tutto è inutile. Alison non nasce, non lavora, non genera figli, non si ammala e, non essendo mai nata, non può morire. È un essere umano cui ci affezioniamo ma ha in più il potenziale proiettivo dell’astrazione, dell’idea. Ci parla da un luogo mentale liberato dai cascami alienanti della civiltà e dalla tirannia dello spaziotempo cartesiano, dall’imperativo entropico a declinare e sparire che è di tutto ciò che è biologico. Lo spettacolo continuo, i mille ruoli interpretati con amore, attenzione e umorismo sono intesi a beneficio della sola macchina eppure la vita di April Dawn Alison ci si presenta più autentica di tante altre vite, provoca nella sua complessità emotiva un intensissimo appello empatico, ci appare qualcosa da proteggere e salvare. Ciò che vale per ogni avatar, che risponde alla pulsione psichica che muove molti travestimenti, genera una testimonianza artistica speciale trovando un reagente nella trasparenza, nell’affiorare all’immagine della vita, del corpo specifico di un uomo che non c’era.
Credits: April Dawn Alison (2019) by Erin O’Toole (ed.) published by MACK