Sono cresciuto con la voce di Claudio Capone, il narratore dei documentari di Superquark degli anni Novanta e Duemila. Quella voce profonda che snocciolava nozioni da sussidiario riusciva a rendere espressiva una descrizione del ciclo vitale dei girini. Capone negli stessi anni di Superquark era anche la voce italiana del protagonista di Beautiful, Ridge. Questo rimando nascosto, uno dei tanti di cui si caricano le carriere dei doppiatori, arricchiva segretamente i filmati sugli elefanti e i monsoni, creando un cortocircuito tra palinsesti e generi di certo molto lontano dagli obiettivi degli autori. I quadretti educativi offerti al pubblico di RAI uno si aggrappavano infatti ancora alla tradizione del documentario di esplorazione, lasciando che a trainare l’interesse fosse il fascino di viaggi esotici verso una natura immutabile e consolatoria.
Oggi i documentari hanno altre ambizioni. A febbraio My Octopus Teacher vinceva l’Oscar per il miglior documentario in un’atmosfera losangelina all’insegna della celebrazione del ritorno delle premiazioni in presenza. Un film sul superamento della distanza tra uomo e animale non poteva non accendere l’interesse di un settore la cui sopravvivenza immediata dipendeva dal superare, tematicamente e letteralmente, il distanziamento imposto dalla pandemia.
Al posto giusto nel momento giusto, dunque, My Octopus Teacher racconta degli incontri subacquei del videomaker Craig Foster con una femmina di polpo. Foster vuole avvicinarsi all’ecosistema marino e capisce di averne bisogno per dimenticare i suoi problemi terrestri. Per farlo si impegna in una continua svestizione – a togliersi la muta e le bombole, a dimenticarsi l’orientamento della superficie – che mai si completa. Il confine da superare, etologico e sensoriale, viene di volta in volta ristabilito dal suo bisogno di controllo.
La speranza di Foster di entrare in contatto con il non umano – e nel mondo animale non c’è nulla di meno umano di un polpo, evolutivamente parlando – procede per astrazioni e semplificazioni del tutto umane che, come vedremo, condizionano anche molti altri film con lo stesso obiettivo. Nella scena in cui uomo e polpo si toccano per la prima volta, per esempio, gli eventi sono chiaramente alterati dal montaggio. Il tentacolo lambisce il polso di Foster quando il documentario non ha ancora preso una direzione chiara. Per quanto ne sappiamo, il groviglio di dita e ventose potrebbe essere la prima lezione di un programma educativo-sensoriale, spiegando così il titolo del film. I registi, invece, impongono una stucchevole cornice romantica alla scena, noncuranti del fatto che Foster sia rimasto senza parole (ci dice solo: «quando quell’animale entra in contatto, succede qualcosa»). Due primi piani in rapida successione creano uno scambio di sguardi tra Foster e il polpo, elevando il momento al grado di intesa spirituale e disinnescando il pericolo di sensazioni senza nome.
In una delle critiche più provocatorie al film, la teorica transfemminista Sophie Lewis spiega come l’ansia interpretativa del film ignori del tutto l’aspetto fisico degli incontri tra Foster e il polpo. In questo modo, secondo Lewis, si riafferma che l’unica conoscenza possibile sia quella mediata da una “mascolinità scientifica” che elimina l’ambiguità dei contatti.
Polpi o meno, il tema della giusta distanza tra esseri umani e non umani non può che essere centrale per un cinema documentario sempre più programmaticamente ambientalista. Il genere si è esteso fino a comprendere filoni anche molto diversi, dai film di denuncia più militanti come Cowspiracy e Seaspiracy alle produzioni più vicine alle radici televisive del documentario naturalistico (Il Nostro Pianeta), passando per le opere autoriali (Gunda).
Pur molto diversi, questi film condividono l’ambizione di “sensibilizzare” il pubblico rispetto alla crisi climatica. Un obiettivo assolutamente alla portata del cinema, se Mark Cousins ha ragione a pensare che il medium funzioni fin dalle sue origini come “un generatore di empatia”, e sia quindi adatto per estendere il campo del sensibile a nuovi protagonisti. Eppure, di fronte a molti dei documentari più recenti si nota come all’esplicita svolta ecologista si accompagnino solo timidi tentativi di estendere il linguaggio cinematografico per sfuggire all’antropocentrismo.
Maiali e altri buoni propositi
Un film che prova ad allargare il campo delle storie raccontabili è senz’altro Gunda di Victor Kossakovsky. Gunda è una scrofa che troviamo sdraiata su un letto di paglia mentre dietro di lei, nel buio della porcilaia, si muovono i suoi maialini appena nati. Uno di loro, ancora coperto di liquido amniotico, procede per intuizione fino alla prima mammella. La sequenza, come il resto del film, è in bianco e nero, senza colonna sonora o voce fuori campo, ripresa dal basso ad altezza animale. Da questa prospettiva vaghiamo insieme a polli, mucche e maiali nei loro accidenti quotidiani.
Il documentario procede risolutamente per associazioni, rinunciando orgogliosamente alla progressione narrativa. Le scelte formali mimano uno sguardo disintermediato verso gli animali, ma inducono negli spettatori una partecipazione emotiva che si rivelerà strumentale.
Il film si chiude infatti con un climax struggente che capitalizza in compassione tutti i non-eventi visti fino a quel punto nella fattoria. Se per un attimo l’esperimento del “primo vegano di Russia” – come si definisce Kossakovsky – ci aveva permesso di abitare il tempo non lineare dei maiali, il finale del film trasforma quei momenti in una lunga premessa al dramma.
La svolta del finale di Gunda fotografa l’incertezza formale e strategica di molti documentari. Riconoscersi una funzione civica e morale rende difficile rinunciare a quelle narrazioni che assicurano empatia e sostegno immediato alla causa ambientalista, ma creare immagini che siano testimoni di un nuovo rapporto tra esseri umani e natura richiede un uso più espressivo e meno retorico delle possibilità del cinema.
Tra i film che considerano il coinvolgimento emotivo uno strumento legittimo di comunicazione emergenziale troviamo Cowspiracy e Seaspiracy. Lo spontaneismo dei buoni propositi di queste inchieste “dal basso”, immediato e contagioso («Vidi il film Al Gore, ero disposto a tutto per aiutare», ci dice il regista di Cowspiracy) consente di avvicinare il pubblico e fare proselitismo. Lo spettacolo dei manager balbettanti di fronte alle proprie responsabilità rinsalda ulteriormente i ranghi tra gli spettatori, e una volta assicurato il proprio seguito i film si possono permettere ogni tipo di semplificazione. Scomposta in calcoli di impatto e infografiche, la natura appare sullo schermo solo come simbolo del disastro da evitare.
Altre produzioni, più istituzionali e meno di denuncia, articolano il proprio ambientalismo sul piano morale, attraverso un convinto vitalismo. Le immagini di Il Nostro Pianeta alternano campi lunghissimi registrati dai droni a riprese ravvicinate di animali, con la paterna voce di David Attenborough a fare da raccordo. Il continuo salto tra generale e particolare, la palette satura e vibrante, e i dolci movimenti di macchina sembrano voler rendere visibile il credo della serie: tutti gli esseri viventi sono alla ricerca della miglior vita possibile.
In un film ancora più recente, Una Vita sul Nostro Pianeta, Attenborough spiega che questa pulsione alla vita non è stata corrotta nemmeno dall’inquinamento irreversibile dell’Antropocene. Se laddove era Chernobyl ora regna la natura selvaggia vuol dire che la natura, come sistema, ha la possibilità di sopravvivere ai nostri disastri. L’appello di Attenborough a “rewild the world”, ri-inselvatichire il mondo diventa quindi tutto sommato un invito alla razza umana a salvarsi.
La morbida esortazione di Attenborough – dai toni comunque impensabili per un documentario mainstream fino a vent’anni fa – sventola la speranza di una via d’uscita e descrive un futuro sostenibile a solo qualche accorgimento politico, morale o tecnologico di distanza. Alimentare questa fiducia è il perno su cui ruota la maggior parte dei documentari ambientalisti. Molti di meno si chiedono se per raccontare storie dove gli esseri umani sono, al massimo, attori non protagonisti, servano immagini nuove e più ambigue.
Storie spurie
Ambiguità e complessità sono le ultime parole che i produttori sperano di sentire. Chi fa documentari può eliminarle dai propri pitch, ma se sceglie di raccontare l’emergenza climatica difficilmente potrà evitare di pensare per ecosistemi.
Per Donna Haraway, filosofa, biologa e teorica femminista, l’unico futuro che vale la pena immaginare è multi-specista, un orizzonte dove i diversi esseri viventi sono sempre in collaborazione tra loro. Al presente dell’Antropocene, l’era delle macchie indelebili e dei rimedi palliativi dell’uomo, dovrebbe quindi seguire lo Chthulucene, ovvero il tempo dell’esistenza ibrida e relazionale, secondo i comportamenti osservabili in natura tra le cosiddette “specie compagne”, creature che prosperano intessendo “parentele” in cui non c’è traccia di dominio o sopraffazione.
Proporre qualcosa di nebuloso come un rapporto di cura reciproca come risposta alla crisi climatica non è in contrasto con i più pragmatici obiettivi politici delle mobilitazioni ecologiste, ma richiede uno sforzo di immaginazione che il cinema può aiutare a compiere.
Cosa vorrebbe dire per il cinema documentario prendere in parola l’invito di Haraway a creare “altri tipi di storie”, allontanandosi da quello che si potrebbe ribattezzare antropocinema – inchiodato sulla rappresentazione moderna del mondo – verso uno chthulucinema associativo, immaginifico, pronto a giocare costantemente con l’idea di punto di vista?
Anche se un cinema non umano non può esistere è legittimo chiedersi quali categorie estetiche e narrative possiamo modificare senza smettere di creare storie affascinanti e necessarie. Tra chi si è fatto queste domande c’è l’autore di fiction speculativa Jeff VanderMeer, che in un suo breviario di scrittura dà consigli per mettere in discussione lo sguardo umano. VanderMeer propone accorgimenti formali che rivelano la consapevolezza che la letteratura è in grado di influenzare le percezioni di chi legge, come «introdurre dettagli o parole che trasmettono movimento e intenzionalità mentre si descrivono paesaggi e ambienti che dovrebbero essere inerti, ma che possono essere attivati».
Se Annientamento, adattamento cinematografico di un romanzo di VanderMeer, ha provato a rimanere fedele alla sua estetica della contaminazione nonostante gli obblighi hollywoodiani, nel campo del documentario indipendente si sono visti tentativi anche più radicali.
La meravigliosa isola tossica descritta da Ben Rivers nel suo Look Then Below confonde definitivamente i concetti di utopia e distopia, altra mossa suggerita da VanderMeer. Tra i tanti documentari sui rapporti delle comunità rurali con il proprio ambiente, il progetto collaborativo Stones Have Laws inventa una nuova estetica per ricreare la relazione simbiotica che i Cimarroni del Suriname hanno con la foresta dove vivono. Fuori dal tempo e dallo spazio si muove invece .TV di Anthony Svatek, un cortometraggio che ricollega le trasmissioni streaming di ogni angolo di internet al luogo fisico del dominio che le ospita (.TV), la piccola isola di Tuvalu, primo paese destinato a scomparire per l’innalzamento dei mari.
Nuovi formati spurii e sommessamente poetici, punti di vista instabili e archi narrativi atipici trovano posto in un cinema sperimentale e libero dalle pressioni delle grandi produzioni generaliste. Considerare questa estetica come un punto d’arrivo per il genere documentario significherebbe ignorare che i paradigmi, anche produttivi, si superano con molte approssimazioni e rari sfondamenti. Per cambiare la traiettoria di un genere potrebbe bastare un montaggio generoso, un’inquadratura che indugia sul tentacolo che risale la mano, ma servirà soprattutto fiducia nelle capacità e nella voglia del pubblico di apprezzare cose nuove. Se i generi si rinnovano secondo gli avvenimenti della storia, non è impensabile che al tempo di uragani mediterranei, deforestazioni e pandemie i documentari si aprano sempre di più ai codici della fantascienza. Del resto Claudio Capone, il narratore di Superquark, era anche la voce di Luke Skywalker.