«Che hai fatto in tutti questi anni?»
«Sono andato a letto presto.»
Questo scambio di battute iconico è l’emblema del lavoro di ricercatezza e di perfezione che Sergio Leone per diciotto anni è andato cercando lungo l’odissea produttiva del suo settimo e ultimo film: C’era una volta in America. Un’opera monumentale che va oltre qualunque classificazione di genere e che, se se ne ripercorre, come ha fatto Piero Negri Scaglione nel volume Che hai fatto in tutti questi anni, Sergio Leone e l’avventura di C’era una volta in America (Einaudi, 2021), le vicende creative, racconta un’epoca, un mondo e un cinema in cui, per quanto se ne dica, non si era pronti a progetti visionari e tanto ambiziosi. L’Italia non aveva i fondi necessari, l’America non si fidava dello sguardo esterno, di un italiano, sulla sua storia. Perché va detto, nonostante il film sia liberamente ispirato al romanzo Mano armata (The Hoods) di Harry Grey, che Giuseppe Colizzi, regista e produttore nipote di Luigi Zampa, scovò in un’edicola romana, porta con sé l’immagine e l’ideale dell’America, di New York, del Lower East Side e del proibizionismo di Sergio Leone, nato a Roma il 3 gennaio del 1929 e che, come tutti erano soliti dire, era un regista di western che ben poco poteva saperne dei gangster movies.
Come ben sottolinea Scaglione nella sua ricostruzione suddivisa in sette tempi, parlando di C’era una volta in America e delle svariate dichiarazioni rilasciate dal regista nei quasi due decenni di lavorazione, spesso realtà e cinema si fondono e diventa difficile, se non si è supportati da testimonianze di chi effettivamente a quel tempo era coinvolto nel progetto, distinguere il vero dalla finzione. Leone, deciso a trasporre sul grande schermo il romanzo di Grey, si mise sulle sue tracce. I loro incontri furono pochi e anonimi in locali malfamati del Queens, in cui era solo il regista a parlare. Grey, schivo e freddo, non possedendo più i diritti cinematografici, poteva fare ben poco e neppure sembrava davvero interessato ad adoperarsi per agevolare la burocrazia. Quello dei diritti sarà il primo grande ostacolo, seguito a ruota dalla ricerca dei produttori e dalla scrittura della sceneggiatura. Sono, dunque, tanti i tasselli di un puzzle fittissimo che Scaglione prova a ricomporre contattando personalità del mondo del cinema italiano e internazionale – arriverà fino a De Niro –, ma anche perfetti sconosciuti. Uno dei figli di Harry Grey si prende, infatti, la briga di raccontare la storia di suo padre di cui, emerge palese, Noodles è l’alter ego. Lo scrittore in gioventù aveva frequentato il mondo della malavita e solo in seguito a un incidente, alla soglia dei cinquant’anni, aveva assunto uno pseudonimo e si era dato alla scrittura.
Il secondo ostacolo per Sergio Leone, che spesso si lascia condizionare dai consigli di colleghi e amici e che nelle sue apparizioni pubbliche – da membro della giuria a Cannes nel 1971, e l’anno seguente a Taormina – fa dichiarazioni contrastanti e che denotano vistosamente il suo non avere le idee chiare, passa in rassegna una serie di strade che, stoicamente, prova a percorrere una a una. In primo luogo, convinto che solo uno scrittore possa dar vita alla sua visione Mano armata per il cinema, propone il lavoro a Leonardo Sciascia che rifiuta gentilmente perdendo anche la sua ultima opportunità di lavorare nel cinema. Segue il desiderio di affidarlo a un regista che sia dentro la fabbrica di Hollywood, ma che allo stesso tempo sia europeo e abbia, quindi, uno sguardo simile al suo: la scelta cade su Milos Forman, ma anche questa opzione non dà i suoi frutti. Proseguendo per tentativi, Leone si affida all’americano Norman Mailer – sempre scrittore – che, pur accettando, consegna un lavoro che troppo resta incagliato nel genere gangster e che, addirittura, cade nell’orrorifico. La carta vincente si dimostra, alla fine, Enrico Medioli, sceneggiatore di Visconti e Bolognini che insieme a Franco Ferrini, Leonardo Benvenuti e Piero de Bernardi scriveranno quello script magistrale che non lascia spazio all’inutilità, che va dritto al punto e che trasforma un discreto romanzo di genere in una narrazione-mondo che cita i grandi autori americani, Faulkner, Fitzgerald, e scomoda i grandi pensatori europei, Freud, Jung e persino Proust da cui, lo confessa Medioli, è rubata la battuta sull’andare a letto presto.
Come già accennato, infiniti intoppi, soprattutto economici, si verificano anche con la produzione e con la selezione del cast. La prima verrà affidata all’intraprendente e giovane Arnon Milchan che si è fatto un nome producendo Scorsese. Stupisce che una delle poche certezze di Leone resta salda: De Niro nel ruolo di Noodles. La pellicola viene girata tra gli Stati Uniti e l’Italia; il prodotto finito lascia perplesso il produttore che, spaventato dalla lunghezza, impone dei tagli soprattutto sulla versione che uscirà negli Stati Uniti. Milchan deve far passare il film come un nuovo Via col vento, ovvero un affresco storico che nulla ha a che vedere con la contemporaneità e tanto meno con un’interpretazione personale di uno straniero che si atteggia a conoscitore dell’America. Ma come reagisce il pubblico, soprattutto in Italia? C’era una volta in America diventa il film della rottura con il passato, la pellicola che fa appassionare al cinema le nuove generazioni, quelle che non conoscevano il neorealismo e la cinefilia. I diciottenni del 1984 vedono sul grande schermo il riflesso del loro sentire: Noodles, un gangster fallito che diventerà subito icona generazionale. Dall’uscita in sala alla consacrazione del mito, il passo è breve. Leone, con quel film a cui non avrebbe mai voluto finire di lavorare – lo sottolinea anche De Niro – ha elevato la sua carriera, ha intellettualizzato il suo pensiero, ha offerto alla sua generazione a quelle che venivano e sarebbero venute dopo di lui il ritratto e la prova di come sia lo sguardo a cambiare la prospettiva, di come il genere, fino ad allora vista come una gabbia o un’etichetta, potesse in realtà ospitare un intero mondo di immagini, di sfumature, di sentimenti e di verità. All’interno di un percorso di peripezie e porte in faccia, dove l’unica a non vacillare era la tenacia, fomentata da una sottile e affilata ambizione, il sogno – che in questa prospettiva sappiamo essere qualcosa di molto americano – ha avuto la meglio. Leone, fedele a se stesso e alle sue idee, ha accettato solo quei compromessi che non avrebbero intaccato la sua integrità di autore. Per dirla con Proust, con Medioli e con Noodles: è andato a letto presto, ma non tutte le sere.