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La letteratura è un’adorabile menzogna. Gli invernali di Luca Ricci



«Le recensioni dicono pochissimo del libro, tantissimo del recensore» si legge ne Gli invernali, in libreria per La nave di Teseo. Verissimo. In effetti questa recensione meriterebbe di essere catalogata nella mia cartellina stampa e non in quella di Luca Ricci. Qui sono io a mettermi a nudo, il libro è solo un pretesto per guadagnare un’oncia di visibilità, un trampolino per tuffarmi nello stagno delle mie nevrosi. Non a caso in questo terzo volume della tetralogia sulle stagioni si legge anche, con feroce rassegnazione: «Perché gli scrittori ormai si recensiscono tra di loro». Tocca trascinare Ricci in un amplesso incestuoso tra colleghi, pagare dazio allo spirito del tempo. Del resto i critici sono in via di estinzione e quei pochi sopravvissuti sono «una manica di presuntuosi, giustamente spazzati via dalle ragazzine che su Instagram si fotografano i libri sulle cosce».

Ricci mette in scena i tanti vizi e le inesistenti virtù del microcosmo editoriale affidando il lavoro sporco a una compagnia di personaggi tanto caratterizzati da sembrare finti quindi clamorosamente autentici. L’autore toscano, con il suo ghigno iconoclasta, si illude di essere il demiurgo non visto dei suoi burattini. Ma percorre il palcoscenico insieme a loro, lo si vede tirare i fili, suggerire le battute, scandire i tempi del copione. Qui il Dio che crea è alla stessa altezza delle sue creature. Ricci inventa biografie fittizie, allestisce siparietti da commedia agrodolce, si mimetizza in una foresta di dialoghi ma Gli invernali non è che l’eco di un protratto monologo. Ricci può essere tanto impietoso perché sotto la maschera del narratore esterno si nasconde lo stesso volto dei reprobi che mette alla berlina. Se è vero che lo scrittore «un tempo ha vissuto per scrivere, ora scrive per visualizzare le notifiche» non si salvano né recensore né recensito, noi che ci sporgiamo ogni giorno dal parapetto di Facebook e gettiamo molliche di pane per placare i languori dei nostri follower.

Ricci

«Una magnifica epopea del suo ombelico» non è soltanto la verità taciuta che Ricci mette in bocca a un suo personaggio per esecrare il balbettio autoreferenziale di tanti troppi impiegati della narrativa. È la fascetta promozionale scivolata via dalla copertina de Gli invernali. Sì, perché il concime di queste 230 pagine sono i Difetti fondamentali dello stesso autore. Ricci è correo perché nemmeno lui può sottrarsi all’evidenza che «anche la merda degli artisti puzza». Ricci è correo perché anche questa novità libraria vivrà “sui banconi meno di una falena”. Nuotiamo in acque torbide e quando invochiamo la nostra innocenza abbiamo le alghe incastrate tra gli alluci.
Ci voleva un pisano pieno d’amore e altre forme d’odio per scegliere Roma, sua città d’adozione, come lente dalla quale osservare il verminaio letterario e dunque il mondo. Gli scrittori e le scrittrici sono qui miserabili perché sono anzitutto uomini e donne miserabili. La cultura, «che ormai è diventata la rovina più bella di Roma», è solo uno specchio come un altro. Nelle terrazze, tra nobili decaduti e intellettuali di regime, rintocca il nome di Proust mentre sotto i tavoli c’è chi va alla ricerca di pompini perduti. Sarà per questo che «a Roma l’inverno non è credibile», che la neve non può cadere perché l’eco di elogi e stroncature non si può smorzare, perché l’ambiguità sordida delle relazioni umane è troppo invitante per cedere il passo ai bucati della coscienza.
Ricci porta al pascolo ipocrisie, grettezze, ambizioni frustrate, machiavellismi, sentimenti corrotti, e li ammassa tutti dentro il recinto di una giornata. Ventiquattro ore, da una mezzanotte alla successiva, che si leggono come il bignami di un’esistenza intera. Rapporti di coppia e beghe editoriali si mescolano in un eterno cicaleccio che sembra fare il verso a certo cinema francese dove la parola è l’azione. Tutti i personaggi sono in crisi di identità come l’inverno che soffia per le strade. Un inverno timido che ha un soprassalto di malizia solo nel propiziare l’imperativo di épater le bourgeois: «Davvero usi il metro della fedeltà per misurare l’amore?»

Gli invernali sono figli dei Mostri di Dino Risi: l’immoralità coincide con il proprio discernimento interiore. Nessuno si salva perché la salvezza è stata divorata insieme ai principi. Il lettore entra ed esce in interni giorno e in interni notte come se avanzasse tra i confini di un palco teatrale, alla stregua di Dogville di Lars von Trier. Dietro mariti, mogli, divorziati e divorziate, amanti e amici, ecco le maschere vischiose di scrittori in crisi di ispirazione, editori in bancarotta, critici volubili, agenti letterari rampanti, accademici in odore di nepotismo, esordienti in cerca di un posto al sole, autrici di genere affamate di riconoscimenti. Singolarità che finiscono per stingersi e trasformare i personaggi in Zelig intercambiabili dove a tirare il filo delle ambizioni si tira il filo delle miserie, a tirare il filo dei sentimenti quello delle imposture.
Luca Ricci, abilissimo ventriloquo, fa risuonare tra le righe una sentenza che fa rima con il buonsenso: «La letteratura non è un movimento di liberazione del cazzo, a favore dei lavoratori o degli animalisti o dei migranti o degli ecologisti o delle femministe o degli omosessuali». È lui che brandisce la spada quando nelle prime pagine de Gli invernali un personaggio si infervora: «Caravaggio non era un assassino? Poe un incestuoso? Maupassant un misogino? Disney un filonazista? Carroll pedofilo? Pound e Céline due antisemiti? Burroughs un uxoricida? Pasolini un pederasta?». Una resa dei conti che Ricci fa anzitutto con se stesso prima ancora che con l’ecosistema che lo nutre. La sua preghiera laica la recita davanti al santino di Manganelli, persuaso che l’engagement sia il granello che inceppa il meccanismo. La letteratura non è altro che un’adorabile “menzogna”. Gli invernali è un pugno sferrato contro il politicamente corretto ma soprattutto un atto d’amore scorrettissimo per i libri e con i libri. Vale la pena leggerlo ma senza bruciare di eccessivo entusiasmo, memori che «se un romanzo ti cambia la vita sei uno psicolabile».

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