Un errore che si potrebbe commettere vedendo e valutando Annette, il nuovo film di Leos Carax in uscita nelle sale dopo l’apertura del festival di Cannes, è considerarlo un musical, giudicarlo attraverso gli schemi di quel genere che va da Fred & Ginger fino a La La Land. Annette invece è un’opera, inteso come lirica e teatrale, declinata nel suo versante contemporaneo come approccio stilistico e musicale. Le sue asperità, le arie poco cantabili e molto recitate, la ricerca sonora della ripetitività vengono dall’ambito della musica colta più che del teatro musicale o del cinema cantato.
Quando gli Sparks – storico gruppo americano a cui Edgar Wright ha da poco dedicato un documentario – consegnarono a Carax le canzoni su cui il film è strutturato per lavorare a una sceneggiatura, di sicuro sapevano che non sarebbe stato un musical hollywoodiano, ma qualcosa di più accomunabile alla tradizione europea, anzi pare dichiararlo fin dall’ambientazione scopertamente teatrale e artificiosa: i due protagonisti, Henry (Adam Driver) e Ann (Marion Cotillard) sono due personaggi dello spettacolo, lui stand up comedian, lei star della lirica – appunto –, che partendo da caratteri e modi opposti di vivere la propria arte si amano, si sposano, danno vita ad Annette, una bimba marionetta, prodigio e dannazione per la coppia che finisce quando Ann muore, per incidente o per omicidio non è facilissimo dirlo. Non solo, ma gli stessi Sparks, nel 2009, realizzarono un’opera rock dal titolo The Seduction of Ingmar Bergman, quindi è chiaro che il filo conduttore del film sia musicale – e di un tipo preciso di musica, all’intersezione tra pop, classica e avanguardia – prima che cinematografico.
È qui che entra in gioco il talento di Carax, uno dei più geniali e sfacciati reinventori della tradizione modernista della Nuovelle Vague francese, e l’opera di revisione del proprio cinema e del proprio stile cominciata nel ’99 con Pola X, attraverso forme respingenti ed eccessive, raffreddando il vitalistico romanticismo di Gli amanti del Pont-Neuf o Rosso sangue e proseguendo nella riflessione teorica e meta-linguistica cominciata nove anni fa col bellissimo Holy Motors: la vita è un palcoscenico, ci dicono Sparks e Carax (che firmano assieme la sceneggiatura), le persone sono attori e allora cercano di raccontarle con i moduli dello spettacolo, scavando dentro i meccanismi dello spettacolo, dichiarando in ogni sequenza la natura o le conseguenze spettacolari di ciò che accade sullo schermo, cercando di allontanare lo spettatore per permettergli di guardare meglio e capire meglio ciò che accade, brechtianamente potremmo dire.
Se Holy Motors smontava pratiche e immaginari cinematografici per mostrarli all’opera nella vita “quotidiana”, Annette fa un’operazione non troppo diversa partendo dal teatro e dalla lirica, e infatti decide di partire con un’ouverture che pare omaggiare proprio l’intermezzo del film precedente e che rivela la natura fittizia, di secondo grado, dell’operazione: dentro una sala di registrazione, gli Sparks stanno suonando la canzone che apre il film, dopo un po’ si alzano e, seguiti da una steadycam mobilissima come quella che precedeva Denis Lavant alla fisarmonica nel film del ’12, continuano a suonare e cantare mentre appaiono Cotillard e Driver, insieme raggiungono un punto fuori dallo studio in cui mettersi in posa e cantare guardando negli occhi lo spettatore prima che il sipario si alzi ufficialmente e la storia possa cominciare. A guardare questa scena, nello studio, ci sono Carax e la figlia Nastya, alla quale il film è dedicato, e come vedremo poi nel racconto, la messinscena e la vita si fondono e confondono: così come Ann muore ripetutamente sul palco prima di farlo per davvero, Carax usa la sua storia e quella di una bambina che rischia di diventare lo spettro della madre per esorcizzare la morte della sua compagna (e musa artistica) prima dell’inizio delle riprese di Holy Motors e il rapporto con la bimba di cui era madre.
In questo groviglio di pulsioni funebri e riscatti vitali, intrico talmente intimo che rischia di allontanare lo spettatore, sempre in bilico sull’opera ombelicale, Carax si muove con una potenza molto diversa da quella dei suoi film precedenti, ha un passo più monumentale e sontuoso, in cui la bizzarria non viene mai meno – a partire dalla rappresentazione della figlia come un Pinocchio contemporaneo che funge anche da puntello per parlare di mascolinità tossica – ma viene applicata a stilemi del passato che il regista cerca di reinventare, in un modo per certi versi vicino a come aveva fatto con il cinema muto nei suoi film degli anni Ottanta. Come il suo protagonista, assassino e vittima di sé stesso, anche il regista sembra voglia liberarsi di un peso, di etichette precostituite, e per questo sfida il suo pubblico e i suoi estimatori: non fa un solo passo indietro rispetto al massimalismo che gli è consueto, i sentimenti che descrive, così come le immagini e i colori che li rappresentano, non hanno molte sfumature, sono secchi, netti, a tratti accecanti come l’onnipresente verde, ma al tempo stesso il connubio tra tenerezza e follia che ne viene fuori non è mai “ad altezza spettatore”, fa di tutto per togliergli gli elementi del piacere più facile per portarlo a un altro tipo di comprensione, di passione, un sentimento cerebrale che dichiara apertamente di esserlo.
Per questo, il musical diventa così solo un’altra delle etichette da cui liberarsi – e che infatti mette a rischio la comprensione –, un modo per richiedere al film qualcosa di diverso da quello che accade su uno schermo: Annette è una tragedia greca cantata, con musiche che spezzano di continuo i ritmi e le melodie, che lotta disperatamente contro sé stesso e gli altri nello stesso modo in cui lo fa Henry, il quale trova la liberazione solo nel bellissimo finale, finalmente catartico, in cui può fare i conti con i fantasmi del proprio amore, con le conseguenze dei suoi atti. E con lui, anche il film si libera, si lascia andare, elabora, cerca lo spettatore per riabbracciarlo: per qualcuno forse lo fa troppo tardi, ma lo slancio con cui ci prova è ammirevole, abbacinante, come la prova spigolosa di Adam Driver, come il senso di inadeguatezza che lo spettatore può provare di fronte a un’opera magmatica come questa, lirica o cinematografica che sia.