La fantascienza «si sviluppa a partire da un disagio storico» e offre «la possibilità illusoria di cambiare di mondo al posto della possibilità reale di cambiare il mondo». Questo verdetto, dogmatico nella formulazione, ma piuttosto preciso nella diagnosi, venne formulato nel 1975 dal critico di impronta marxista Enzo Ungari (nel suo Immagine del disastro. Cinema shock e tabù, Arcana editrice, Roma) quando la science-fiction si limitava sostanzialmente a B-movies per appassionati, e ancora gli schermi cinematografici di tutto il mondo erano vergini da quell’invasione che sarebbe iniziata solo nel 1977 con Star Wars.
La fantascienza continua a parlarci: a parlare per noi e, per chi è più smaliziato, a parlare di noi. È uscito il mese scorso un colossal come Dune, ottenendo un significativo successo di pubblico nonostante gli ultimi strascichi della pandemia; e a scrollare la lista dei film di maggiore incasso del periodo recente, sei su dieci sono ascrivibili al genere fantascientifico. Già più voci hanno evidenziato come dietro le complesse lotte dinastiche che formano la trama di Dune si possa leggere un appello ecologico, e forse anche una riflessione sul colonialismo occidentale. Più spesso però della fantascienza risultano illuminanti non le sottotrame che gli autori più accorti vi inseriscono, bensì le implicazioni che, cercando di trovare una quadra tra antropologia, psicoanalisi e una certa idea di sociologia dell’immagine, si possono trarre dalle trame quanto dal loro extra-testo produttivo.
Se la fantascienza ha un merito, è quello di permetterci di attraversare il concetto di alienazione in tutte le sue screpolature. È un gioco di parole fin troppo facile a farsi: l’Esistenzialismo letterario ha trovato uno dei suoi maggiori capisaldi in Lo straniero, che condensa in sé le caratteristiche di tutti i personaggi esistenzialisti dei vari Camus, Sartre, Moravia; la cosiddetta sci-fi, bene o male ha sempre a che fare con alcunché di alieno, sia esso un extraterrestre, un robot, un pianeta senziente, una catastrofe cosmica o, peggio ancora, un replicante mimetico alla Blade Runner.
In che senso però esplorare altri mondi con la fantasia è o può essere una forma di alienazione, e quanto questa alienazione deve essere necessariamente qualcosa di negativo? È un dato di fatto indolore che, nella stragrande maggioranza dei casi, i film di questo genere svolgano la funzione di fantasia collettiva escapista: film come Solaris di Andrej Tarkovskij, che si propongono di dimostrare, sia con le parole dei personaggi che a livello di struttura profonda del racconto, il fatto che noi umani «non abbiamo bisogno di altri mondi: abbiamo bisogno di uno specchio», rappresentano delle eccezioni assolute.
La fantascienza non può essere ricondotta a una mera fantasia di fuga, per carità. Il concetto stesso di alienazione, nella sua formulazione filosofica tradizionale, implicava qualcosa di diverso: il trasferimento di alcune delle migliori qualità dell’uomo in un Essere-altro, morbosamente superiore, apparentemente incomprensibile. Da quella più di bassa lega alle sue varianti più consapevoli, la fantascienza trasferisce sprazzi di presente in un futuro più o meno lontano e talvolta indica anche delle potenziali risoluzioni. Negativizzarla sarebbe un errore, una presa di posizione dogmatica: anche quando è puro intrattenimento, la fantascienza ci dice molte più cose sul nostro mondo di quanto non facciano altri generi altrettanto di “cassetta”. Proprio per questo però una visione che per assurdo ancora si muovesse su un solco marxista-feuerbachiano, quale era indiscutibilmente cinque decenni fa quella di Ungari, vedrebbe tuttora la fantascienza alla stregua di una religione del XX secolo. E, come dimostra fin troppo bene Dune, una simile affermazione sarebbe tutt’altro che infondata.
1947, Nuovo Messico. Un oggetto non identificato precipita al suolo, un allevatore ritrova alcuni rottami metallici nel suo ranch e ne nasce un caso di chiacchiericcio nazionale. È uno dei primi e il più famoso degli avvistamenti Ufo – passerà alla storia come “l’incidente di Roswell”. Pochi anni dopo, in Europa, Carl Jung, ormai riconosciuto caposcuola di uno dei filoni della psicoanalisi più attenti alle mitologie, dedicherà al fenomeno degli Ufo in America uno dei suoi saggi più sorprendenti – Un mito moderno, uscito nel 1958. Nel saggio, una delle prove più eclettiche di Jung, si passava da sogni di suoi pazienti o corrispondenti a quadri di varie epoche, alla ricerca di un’universalità psicologica del fenomeno ufologico, nella consapevolezza che «oggi come non mai la situazione mondiale si presta a evocare l’attesa di una soluzione soprannaturale». E alla fine, gli Ufo moderni si ritrovavano ricollegati da un lato ai mandala delle religioni orientali, dall’altro lato agli angeli di cristiana memoria.
Quindi sì, la fantascienza ha molto a che fare con la religione. Così come con certe implicazioni del platonismo e con la gnosi, come dimostra un recente saggio di Paolo Riberi pubblicato da Lindau. La fantascienza talvolta è in effetti una forma di «trascendenza per delega»: e non di rado un simile bisogno di fuga e di estasi fa il paio con un ripudio del presente, che ne rappresenta al tempo stesso una sua assolutizzazione. Se la tragedia – forse, e più debolmente – ha alcune sue reminiscenze nel cinema horror, e nel senso di ineluttabilità proprio del genere, la fantascienza presenta in sé, e in tutte le sue ipostasi che vanno dai film di cassetta più beceri alle operazioni più marcatamente autoriali, il carattere caldo e rassicurante del Mito. E questo apre la fantascienza a implicazioni sociologiche ed epistemologiche che gli altri generi neanche sfiorano – così come a un certo infantilismo di fondo che a volte si impadronisce di intere trame, e che registi come il Denis Villeneuve di Dune cercano con vario esito di esorcizzare proponendo una fantascienza a loro dire “matura”, (anche) per adulti.
Anche per questo motivo assume particolare rilevanza un fenomeno, quello del Retro-futurismo, piuttosto noto e discusso tra gli appassionati. Gli anni d’oro della fantascienza letteraria possono essere indicati fra gli anni Quaranta e Cinquanta; film di fantascienza pure seminali come La Cosa da un altro mondo o La terra contro i dischi volanti uscivano già nei Fifties, e nel 1968 il genere aveva ricevuto una benefica benedizione “d’autore” da parte di Stanley Kubrick e della sua Odissea nello Spazio, ma la fantascienza cinematografica ha trovato il suo canone definitivo solo tra la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta, con opere quali Star Wars, gli Alien, i Terminator, Predator, Robocop, Blade Runner. Fenomeni cinematografici del tutto nuovi che hanno saputo penetrare l’immaginario collettivo degli spettatori, come Matrix a cavallo del millennio, ce ne sono stati, ma soprattutto nell’ultimo decennio la fantascienza si è nutrita di remakes e di adattamenti, come è il caso del Marvel Cinematic Universe, che meriterebbe una trattazione a sé stante.
Quest’usanza hollywoodiana dei sequel, reboots e remakes è ormai giunta al parossismo, ma indica qualcosa di più di una mera crisi delle idee. Cercando di non esagerare, si può dire che siamo davanti a una parziale crisi dell’immaginario, che si traduce in un inevitabile arroccamento nel già visto, nell’usuale. Il Mito è ripetizione: ripetizione rassicurante, come la poppata per un neonato. Parliamoci chiaramente: nel 2001 immaginato da Kubrick, l’astronauta David Bowman andava verso Giove e vi trovava una Porta per una nuova dimensione ontologica – ma il 2001 non è passato alla storia per un nuovo capitolo della corsa nello spazio, bensì per l’11 settembre e per l’attentato alle Torri Gemelle. Il Mito, messo alle strette, diventa totalizzante e logorroico, ma mostra i segni di una crisi – i film di supereroi, con la loro struttura profondamente messianica, sono la conseguenza diretta che Al-Qaeda ha avuto su Hollywood.
Il Retrofuturismo è quella corrente della fantascienza – non limitata al cinema e ai libri, ma anzi molto più diffusa a livello di serie e di visual design – che continua a immaginare il futuro come veniva immaginato alcuni decenni fa, ai tempi del Canone fantascientifico, quando il futuro, nonostante o proprio a causa della Guerra Fredda, appariva più roseo. Il Retrofuturismo è il contrario dell’ucronia, quale era quella che Philip Dick tracciava ne La svastica sul sole immaginando che i nazisti avessero vinto la guerra. Per fare degli esempi pratici, retrofuturista è la serie tv di Amazon Tales from the Loop, ma anche e soprattutto un fenomeno di massa quale la serie Netflix Stranger Things, che “spaccia” in blocco agli adolescenti di oggi tutto l’immaginario cinematografico degli anni Ottanta, fantascientifico e non.
Se vogliamo, il Retrofuturismo è l’esito ultimo della fantascienza, quell’involuzione in sé stessa che dà credito alla nostra percezione di una crisi dell’immaginario prima ancora che dell’immaginazione. Al tempo stesso, almeno per prodotti più autoriali come Tales from the Loop, non possiamo non scorgere in questa corrente tracce di una meta-critica alla fantascienza imperante, o, quantomeno, l’ammissione di una sconfitta, di un disincanto. Per ricordare l’immortale raccolta di Fruttero & Lucentini, la fantascienza in passato immaginava Le meraviglie del possibile, proiettandole in un futuro anche prossimo: la fantascienza di oggi sembra ritagliarsi per lo più ricordi di un futuro passato, come è il caso di Dune che, tratto da un romanzo di Frank Herbert del 1965, è ambientato oltre l’anno 10.000 recuperando però anche l’immaginario biblico e medioevale. Paradossi del Tempo, si dirà. Malessere e fascino della fantascienza, se vogliamo.
20 luglio 2021. Nel giorno dell’anniversario dello sbarco sulla Luna, Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo in intermittenza con quell’altro fanatico della fantascienza che è Elon Musk, è andato nello spazio per dieci minuti. Il 12 ottobre anche William Shatner, lo storico protagonista di Star Trek ormai novantenne, è andato nello spazio su un razzo finanziato da Amazon. Cortocircuiti dell’immaginario: l’ansia di rendere presente – e branded – un futuro puramente immaginario. «La Terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere nella culla per sempre» sentenziò il grande scienziato russo Ciolkovskij. Dopo un periodo lungo in cui gli unici viaggi per lo spazio sembravano essere quelli di routine degli astronauti che si davano il cambio sulla Stazione Spaziale Internazionale, si ritorna a parlare di Marte, delle stelle, di un ritorno sulla Luna. Nonostante i tentativi della NASA di tenersi al passo e di collaborare, sembra legittimo presentire che il futuro della corsa allo spazio sarà in mano ai privati. Alien a parte, le space operas non si erano mai poste il problema di chi avrebbe finanziato le astronavi. La fantascienza dal Mito alla prosa – ancora una volta. Verso un futuro che non ha le luci scintillanti dei vecchi film degli anni Settanta – ma neanche il fatalismo paradossalmente rassicurante dei film apocalittici. Soprattutto in tempo di Covid – è il futuro il vero alieno, forse.