Alcune madri sono tempesta. Forse lo sono tutte, in realtà, ma alcune più di altre. Sembrano suggerire questo, alcuni libri pubblicati di recente proprio qui, nella patria della maternità intesa come devozione e sacrificio. Perché la maternità è un tema che ne contiene molti altri e che va ancora scandagliato in tutte le sue accezioni, anche quelle più scomode e inaccettabili.
«Dalle altre femmine uno può salvarsi, può scoraggiare il loro amore; ma dalla madre chi ti salva?», chiedeva Elsa Morante, interrogando un legame che non smette di attrarre, suscitare interrogativi e che in questi anni sembra stia dando il meglio di sé come motivo ispiratore. In un momento storico caratterizzato da tendenze opposte, come denatalità e genitorialità a tutti i costi, fra le pagine s’imbastisce una riflessione su queste stesse tendenze, che si ha finalmente il coraggio di raccontare. Perché la madre non è una sola, è una figura che va declinata al plurale per sottrarci al ricatto che ci vorrebbe tutte nello stesso modo, e invece no, perché ognuna è madre a modo suo. In un paese arretrato come il nostro, così ancorato alla retorica sul diventare madri e sulla famiglia tradizionale, la letteratura ci incoraggia ad abbandonare false credenze e cliché.
Gianni Solla traccia un affresco famigliare in Tempesta madre (Einaudi), un romanzo tutto incentrato sulla figura di quest’ultima, una donna dalla forza distruttrice, i cui entusiasmi durano pochi istanti, «così bella ma così trasandata, che fumava sigarette in continuazione». Una madre acerba, sopra le righe, che copre suo figlio di ridicolo travestendolo da Hitler a carnevale e che litiga con tutti, anche con le suore dell’istituto scolastico che il piccolo Jacopo frequenta. Il bambino introietta il suo male di vivere, il senso di insoddisfazione e d’inadeguatezza ma, a differenza della palazzina rasa al suolo in cui hanno vissuto tanti anni e della madre stessa, Jacopo riesce a salvarsi. È una salvezza che deriva dall’insegnamento che anche la peggiore delle madri sa offrire, ma soprattutto che non esiste una madre peggiore delle altre. Ed è di qualche conforto che a realizzare un ritratto tanto evocativo e spietato di maternità sui generis non sia una scrittrice ma uno scrittore.
In Sembrava bellezza (Mondadori), Teresa Ciabatti torna ad affrontare uno dei suoi grandi temi. Nel precedente La più amata c’era lo sguardo di figlia, la stessa che per un anno osserva la cura del sonno cui la madre si sottopone in casa, e che la vede crollare fino ad arrivare a vergognarsene. Ora la figlia è diventata madre a sua volta. Una madre difforme (e deforme) che si compiace con se stessa di aver traghettato la sua, di figlia ormai adulta, in un altrove lontano da lei, salva, come se la sua sola presenza avesse rappresentato un pericolo, un cattivo esempio, il contrario di ciò che si presuppone una madre debba essere. La maternità sembra tante cose, vista da fuori, ma dentro ci sono interi mondi, sentimenti contrastanti e proiezioni scomode, perché per le nostre stesse figlie desideriamo di meglio e di più, qualcosa di diverso rispetto a quello che è toccato a noi. L’intera vicenda, una storia che affonda le radici nell’adolescenza e che racconta l’apparente riscatto della protagonista da quest’ultima, guarda in più punti al destino di Marilyn Monroe, l’icona hollywoodiana che non diventerà mai madre suo malgrado. Dietro il suo sorriso e la sua bellezza, un baratro che avrebbe finito col risucchiarla e che l’avrebbe condotta al suicidio a soli trentasei anni. Nonostante venisse da una famiglia problematica – la vita di sua madre era stata segnata dalla schizofrenia paranoide e da numerosi ricoveri in clinica – Marilyn desiderava moltissimo avere un figlio, come dimostrano i suoi numerosi aborti. Teresa Ciabatti ci conduce in un viaggio in cui possiamo ritrovarci tutti: ex rampolli ed ex reginette del liceo, ritardati mentali, adolescenti complessate, madri assenti che diventano apprensive e figlie che una volta adulte si sottraggono alla loro morsa.
Senza scomodare estreme posizioni anti-nataliste, leggere questi libri ci interroga sul perché continuiamo a voler diventare madri e a fare figli. È un desiderio indotto dalla società in cui viviamo? Un istinto che a un certo punto prevale su tutto il resto? La maternità come proiezione e presagio attraversa il romanzo Sempre soli con qualcuno, edito da Marsilio. Annalisa De Simone racconta molto bene il senso di colpa che serpeggia nella vita da “nonancora-madre” e i giorni da “futura-madre”, dimensioni temporali antitetiche eppure simili per l’attesa che le accomuna. Attraverso la sua trama esile, il libro solleva interrogativi. Si lascia andare a verità e paradossi che spesso preferiamo non ascoltare. Quale peso specifico riveste l’età nel decidere se portare avanti una gravidanza oppure no? Una donna che ha già dei figli abortirà più o meno facilmente di chi invece non è mai stata madre? Il cruccio del diventare madre ci attraversa tutte indistintamente o risparmia alcune? E a cosa siamo disposte, pur di fare un figlio? Congelare i nostri ovociti, stare con un uomo di destra, lasciare quello che amiamo e che figli non ne vuole? Forse. Come scrive De Simone, «l’unico nostro vantaggio è questo. Decidere di portare avanti una gravidanza. Oppure interromperla. Agli uomini, il lusso di prendersi il tempo che vogliono prima di diventare padri». Ma anche quello, il più delle volte, di non essere travolti dalla genitorialità.
Credits:
Frame dal film Mother! di Darren Aronofsky