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L’amore è un grande mistero. Una conversazione con Dente

Si celebrano i quindici anni de L’amore non è bello: «scrivere è una scialuppa di salvataggio che mi tiene a galla».

Quindici anni fa, il 14 febbraio 2009, a San Valentino, usciva L’amore non è bello, l’album con cui Giuseppe Peveri, in arte Dente, si sarebbe consacrato all’ammirazione di un pubblico sempre più ampio, facendo del cantautore di Fidenza il maestro ante litteram della canzone indie italiana come la conosciamo oggi.

Tredici brani per tredici diversi volti dell’amore, attraverso cui Dente si insinuava tra le pieghe di un sentimento tanto discusso quanto inconoscibile, facendoci scivolare nelle sinuosità di un grande mistero, perché proprio come un vento l’amore arriva, «entra nelle narici, resta in circolo per un po’ e poi una mattina ti svegli, inspiri ed espiri, e l’amore è andato via».
Impregnate di una malinconia dolce, con l’immediatezza e la semplicità di una ninna nanna e l’alone disorientante di certe atmosfere surreali, le canzoni del terzo album di Dente descrivono l’amore che nasce e ti scoppia nel cuore una mattina, ma anche l’amore che «inciampa a primavera» e l’amore che finisce, lasciandoci soli a domandarci dove siano finite a un certo punto «tutte le parole piccole e preziose tipo “vieni qui”, dove siano andate tutte quelle cose che non dividiamo più».

Nel quindicesimo anniversario de L’amore non è bello, Dente recupera l’album da un vecchio computer, lo rimasterizza e lo porta in tour per la penisola, invitando i suoi ascoltatori a un nostalgico ed emozionantissimo viaggio nel tempo e nella memoria, per scoprire che poco o niente è davvero cambiato e che forse Dente, quindici anni fa, aveva scritto davvero «una canzone senza fine».
Ne abbiamo parlato con lui, all’interno della cornice del festival Ferrara sotto le Stelle, dove è stato in concerto il 7 giugno.

Un mese in giro per i palchi d’Italia e adesso tre nuove date estive per festeggiare i quindici anni de L’amore non è bello, il tuo album a cui la gente è più affezionata, quello che ha segnato di più i tuoi ascoltatori. La prima data è stata venerdì 7 giugno al festival Ferrara sotto le stelle.
Sì, abbiamo deciso di aggiungere queste tre date estive a un tour che è andato molto bene. Tre concerti in cui suoneremo dal vivo tutto L’amore non è bello, riservando poi a una seconda parte della serata anche i grandi classici. Abbiamo pensato a una scaletta un po’ più estiva rispetto ai concerti di questo inverno e il risultato è un concerto diviso in due, tra vecchio e nuovo.

Com’è andata, com’è stato riportare sul palco quelle stesse canzoni quindici anni dopo? Hai avuto la sensazione di guardarti da fuori come un estraneo o ti sei riconosciuto nella stessa persona che le ha scritte?
È stato innanzitutto molto bello riprendere in mano quelle canzoni. Alcune le suono ancora e le ho sempre suonate in tutti i tour da allora a oggi, altre non le suonavo da tanto tempo. La cosa che mi ha impressionato di più, al di là del fatto che continuino a essere canzoni per me emotivamente molto forti, è la loro semplicità. Suonandole ho capito quanto fossero semplici, così come lo era la produzione del disco: poche tracce, un basso, la batteria, il pianoforte e in alcuni casi la chitarra acustica. Ma l’approccio alla produzione musicale era molto diverso da come si fanno i dischi oggi, quelle canzoni giravano bene in quartetto senza aver bisogno di altro. Nelle produzioni nuove, la tecnologia permette di aggiungere un sacco di strati che però poi dal vivo mancano, non puoi portare venti persone sul palco.

Quindi credi che la semplicità sia stata, tra le altre cose, la carta vincente di questo album?
Non so quale sia stata la carta, né se ce ne fosse più di una. Di sicuro c’è stata la fortuna di uscire al momento giusto, in un periodo in cui nell’aria c’era la recettività per un disco di questo tipo. Prima dell’inizio di ogni concerto di questo tour, ho mandato in sottofondo sul palco una playlist con tutti i grandi successi italiani di quegli anni, dal 2008 al 2010, e mi ha colpito quanto il mio disco fosse diverso da tutto ciò che c’era in giro. Oggi c’è più omologazione musicale, sia nelle sonorità sia nei testi. Io credo di aver parlato una lingua diversa da quella che parlavano tutti gli altri.

E oggi? Continui a parlare una lingua diversa?
Per me non è cambiato nulla. Continuo a fare canzoni nello stesso modo di allora, quando ho bisogno di farle e ho delle cose da dire a me stesso o a qualcuno. Attraverso il canale della canzone riesco a sfogarmi, a dire cose che altrimenti non riuscirei a dire e mi ritengo molto fortunato ad avere questo canale come sfogo. Ho sempre creduto nel potere terapeutico della scrittura. Quando qualche mese fa ho scritto le mie nuove canzoni, le ho scritte in preda a un fuoco che non provavo da tanto e che mi ha ricordato moltissimo il periodo in cui scrivevo i testi di L’amore non è bello. Erano canzoni che dovevano uscire dalla mia testa, erano canzoni molto urgenti. Fortunatamente continuo a scrivere canzoni in quel modo. O sfortunatamente, chissà, non ci si riappacifica mai con il mondo.

E intorno a te invece credi sia cambiato tanto dal 2009 a oggi?
Intorno a me è cambiato tutto, come nel 2009 era cambiato tutto rispetto agli anni Novanta.

Quando si prova a intrecciare le fila della nostra storia musicale recente, vieni spesso indicato come il precursore, se non proprio l’iniziatore della canzone indie che cambierà lo scenario della musica italiana dal 2016 in poi. Ma anche come il cantautore che ha sempre strizzato un occhio ai grandi di ieri, da Battisti a Tenco, a Graziani. Una sorta di Giano bifronte con un occhio nel futuro e uno nel passato. Tu come ti collochi in relazione a tutti questi nomi? E soprattutto quanto c’è di loro nella tua esperienza?
Che sia un precursore lo dicono appunto gli altri, è molto difficile valutarsi tale e io non mi metto certo su un piedistallo. Tuttavia cantautori più giovani di me mi hanno confessato di aver iniziato a suonare perché hanno ascoltato le mie composizioni. È ciò che succedeva anche a me, quando avevo diciotto anni e ho iniziato a suonare perché ascoltavo i Marlene Kuntz. È ascoltando loro che ho preso in mano la chitarra elettrica. Ho avuto anch’io i miei maestri, o meglio, coloro che mi hanno fatto venire voglia di imbracciare uno strumento e di scrivere canzoni. Tutto è ciclico. E certamente Battisti, Tenco e gli altri grandi cantautori di quella classe lì fanno parte della mia formazione.

Se ascolto versi come «mi piacciono le canzoni coi finali tristi o mi piacciono le ragazze con le doppie punte, mi piacciono le auto senza le multe» faccio fatica in effetti a non pensare che il germe di una certa canzone successiva non stesse già espandendosi dentro di te.
Sì. Probabilmente si tratta di un linguaggio che era molto nuovo allora e che poi è entrato a far parte della normalità. Le canzoni indie usano un vocabolario e uno stile che riprendono quel linguaggio lì. Forse è per questo che si notano tutte queste corrispondenze.

E a proposito di linguaggio, L’amore non è bello è un titolo meraviglioso che definisce l’amore per negazione.
Sì, il titolo era un titolo forte. All’epoca tutti i miei titoli erano dei giochi di parole, in questo caso abbiamo un proverbio mozzato, un proverbio che privato della sua metà cambia totalmente significato. È stata una dichiarazione di intenti molto precisa, così come quella di uscire il giorno di San Valentino.

Già, l’amore non è bello è una negazione molto tranchant. E mi viene spontaneo però far seguire delle affermazioni. L’amore non è bello, l’amore è doloroso, l’amore è una scelta e forse nella scelta è già insita una rinuncia, come canti in Finalmente. L’amore è mille cose tutte insieme. E nelle canzoni di questo album tu le metti in scena tutte. In quale faccia dell’amore riconosci di più la tua esperienza? E come ti poni tu nei confronti di questo sentimento oggi?
Per me l’amore è un grande mistero. Sia nella sua accezione positiva sia in quella negativa. I sentimenti non sono tangibili, sono misteriosi. E quando ci si innamora, quando si guarda qualcuno negli occhi e non si capisce più niente, quando si fanno delle cose che razionalmente non si farebbero, sono forze misteriose e invisibili a muoverci. Questo per me è il grande mistero dell’amore. E rimane un sentimento misterioso anche quando finisce. L’amore arriva e se ne va. A volte non ci capacitiamo del fatto che possa finire, ma l’amore può finire. È come un vento che arriva, ti entra nelle narici, resta in circolo per un po’ di tempo e poi se ne va da qualche parte. Una mattina ti svegli, inspiri ed espiri, e l’amore è andato via.

Molte canzoni dell’album sono delle fotografie estremamente vivide della vita a due. A volte dolcissime e rassicuranti come quelle di Vieni a vivere, altre volte ruvide e amare, come quelle di Buon appetito. E allora «andiamo a fare la spesa al discount» della prima diventa «vorrei non sapere più quando fai la spesa cosa comperi» nella seconda. Com’è che l’amore diventa questo? In quel periodo hai fatto esperienza di un amore poi finito? Quanto c’è di autobiografico in quei testi?
Sì, questo album è interamente autobiografico. Era appena finito un grande amore, un amore molto importante, quindi quelle erano tutte canzoni di grande urgenza, che ho scritto in breve tempo, mentre attraversavo un momento di separazione. Di nuovo la scrittura come cura: scrivo, mi sfogo, non risolvo i problemi, ma rimango a galla. Scrivere mi aiuta a non affogare.

Un modo per raccogliere il dolore e trasformarlo in qualcosa di bello.
Esatto. È come sedersi su delle piccole scialuppe di salvataggio che si posano sul velo dell’acqua e ti tengono a galla.

Tornando a Vieni a vivere, questa canzone mi ha sempre fatto pensare a due giovani adulti innamorati che a un certo punto della loro relazione decidono di andare a vivere insieme. Però tu in quella canzone ripeti vieni a vivere come me, non con me. Cosa significa esattamente vieni a vivere come me? Dietro quel “come” c’è solo un’esigenza di suono, un’esigenza metrica, o si cela una tua particolare visione dell’amore e della vita a due?
Di quel ritornello andavo molto fiero appena l’ho scritto. In quel periodo cercavo di scrivere delle cose diverse rispetto a quelle che sentivo in giro. Vieni a vivere con me mi sembrava molto banale, cambiando quella sola parola, cambiava tutto il significato. E poi quello che mi interessava chiedere a una persona non era una banalissima e stupida convivenza, io volevo chiederle di vivere come me, di accettare il modo in cui ero fatto, di mettersi un po’ in gioco. Non di condividere uno spazio o un affitto, ma di diventare una cosa sola, diventare due persone uguali.

Accordarsi, andare allo stesso ritmo.
Sì. Tutte le strofe parlano di una convivenza abbastanza surreale peraltro, perciò non si trattava di suono, ma certamente di significato.

Sei anche un grandissimo lettore e un appassionato di libri. E la musica, soprattutto un certo tipo di musica, dialoga moltissimo con la letteratura. Negli ultimi tempi hai pensato di scrivere qualcosa di più lungo del testo di una canzone? E che cosa scriveresti, di cosa vorresti raccontare?
Io ho scritto un libro, uscito nel 2015, 9 anni fa, Favole per bambini molto stanchi, edito per Bompiani. È un libro di cui sono molto felice, perché l’ho scritto con l’idea di giocare, di divertirmi. Quando ha iniziato a diventare corposo mi sono detto “ah, è un libro vero questo!”. E poi lo è diventato. Mi piacerebbe scrivere qualcos’altro di molto diverso da quello che ho già fatto. Però al momento non ho in cantiere niente di concreto, scrivere un altro libro è solo un’idea che mi ronza in testa. Ma non adesso, magari tra un po’. Ora ho in mente altri progetti, ad esempio il mio nuovo disco. Chi lo sa, magari alla fine del prossimo giro mi metterò di nuovo a scribacchiare!

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