Oltre la Soglia

Il caso Eichmann. Dovere, obbedienza e mancanza di pensiero



«Se gli avessero ordinato di uccidere tutti quelli con i capelli rossi o tutte le persone sull’elenco telefonico il cui cognome iniziava con la lettera K, lui l’avrebbe fatto».
Simon Wiesenthal, cacciatore di nazisti


Alla fine del secondo conflitto mondiale Otto Adolf Eichmann, dopo essersi nascosto per qualche anno nelle campagne tedesche sotto falso nome, riesce a ottenere un passaporto contraffatto rilasciato dalla Croce Rossa a nome Ricardo Klement, e l’11 novembre 1950 si imbarca su un piroscafo italiano nel porto di Genova e raggiunge l’Argentina peronista. Qui inizia a lavorare negli stabilimenti della Mercedes vicino a Buenos Aires, dove verrà catturato e rapito dagli agenti del Mossad la sera dell’11 maggio 1960. Dieci giorni dopo, durante la notte, l’SS viene stordito e vestito come un membro dell’equipaggio della compagnia israeliana El Al, caricato a bordo di un aereo e trasferito in Israele.

L’11 aprile 1961 inizia il processo di Gerusalemme: lo Stato di Israele contro Adolf Eichmann, quindici capi d’imputazione per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il mondo intero guarda. Israele e l’opinione pubblica internazionale si attendevano la vista di un’incarnazione demoniaca, l’espressione di una malvagità perversa in grado di commettere azioni disumane: il nazismo seduto sul banco degli imputati. Qualcosa tuttavia non torna, e lo mette subito in evidenza la filosofa Hannah Arendt, inviata corrispondente del New Yorker. Eichmann era il prototipo del piccolo-borghese, un comune padre di famiglia che aveva visto nel sistema nazista una possibilità per fare carriera, un uomo mediamente colto e privo di una reale natura malvagia che «ha solo voluto obbedire allo Spirito della Storia» [1] e si è lasciato trascinare dal corso degli eventi senza opporvisi, anche se la via preposta per farlo sarebbe stata quella della macchina dello sterminio. Eichmann arriva addirittura a dichiarare di non essere mai stato un antisemita, e di avere semplicemente rispettato le regole e obbedito alla legge, mettendo in atto tutto ciò che il sistema avesse preteso da lui, sentendosi così sollevato da ogni responsabilità nelle sue azioni in quanto comandate (dinamica tipica di ogni sistema gerarchico).

I treni. Ciò che ad Eichmann importava davvero non era la reale destinazione dei convogli – che era a lui perfettamente nota, quindi sapeva di condurre degli esseri umani a morte certa –, ma la precisione massima del piano logistico: quello era il suo dovere. Eichmann non era altro che un ingranaggio di una folle fucina omicida, un grigio funzionario che si esprimeva con un terribile linguaggio burocratico, un soggetto che non agiva per volontà distruttive o impulsi omicidi, ma eseguiva gli ordini in quanto provenienti da una autorità a lui superiore, da una catena di comando che non poteva e non doveva essere messa in discussione proprio perché era la garanzia in essere della deresponsabilizzazione della coscienza.
Da un punto di vista giuridico Eichmann non ha fatto altro che seguire la legge dello Stato nazista, diventando uno scrupoloso esecutore che avrebbe solo svolto con una precisione maniacale il suo ruolo, senza chiedersi se ciò che andava a compiere fosse moralmente giusto o sbagliato. Ma cosa avrebbe spinto il perfetto esemplare di cittadino tedesco medio-borghese a diventare un ingranaggio dello sterminio? Si tratta di quella che Arendt ha definito una «cieca obbedienza» (Kadavergehorsam) alle vere figure demoniache (Hitler e il suo ‘cerchio magico’), che grazie alle loro forti personalità carismatiche e capacità comunicative, sono state in grado di rendere dei semplici cittadini complici ed esecutori di questo sistema, degli uomini qualunque spinti a compiere azioni disumane, ma stabilite dalla legge e volute dal Führer, la cui volontà si traduceva in un dogma assoluto. Ed ecco che il nazismo ha fatto crollare i principi morali della civiltà occidentale, li ha dissolti e ha eretto una contro-etica nuova, i cui esecutori sarebbero stati dei normali, insospettabili, insignificanti e mediocri individui deresponsabilizzati, dei grigi burocrati che avevano abdicato alla funzione prettamente umana del pensiero e non avevano ragioni per opporsi alla legge. Il male commesso da questi individui qualunque è assolutamente privo di qualsiasi intenzionalità, una semplice e automatica attuazione di disposizioni provenienti dal vertice della piramide gerarchica che li ha resi scrupolosissimi e silenziosi esecutori di una folle e perfetta macchina di morte.

Dietro alla tremenda normalità di questi uomini si trovano le radici di ciò che Arendt definisce banalità del male. Si è trattato di azioni messe in atto senza convinzione, senza crudeltà, dalle menti comuni e non diaboliche di soggetti che hanno negato la loro stessa essenza di esseri umani; questi individui non sono stati spinti dal desiderio o dalla volontà di trasgredire ai codici morali tradizionali, ma da una cieca esecuzione della legge e delle direttive dei superiori. Abbiamo quindi compreso che non si è trattato di una manifestazione di un oscuro «desiderio luciferino di distruzione» [2] di un intero popolo, ma di azioni attivate in modo meccanico, il cui unico compito era quello di obbedire ai comandi ricevuti e compiere il proprio dovere, cioè eseguire.
Il fenomeno della banalità del male è stato frutto dell’abbattimento dei principi etici tradizionali, quelli che l’Occidente cristiano ha sempre considerato come imprescindibili (non uccidere, non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, rispetta il prossimo ecc.). È un crollo morale cui è seguita l’imposizione di un nuovo imperativo che avrebbe consentito a un’azione inumana come l’omicidio, in questo caso lo sterminio di massa, di diventare un’azione non solo lecita, ma necessaria. É il potere politico dello Stato nazista che in questo contesto si fa promotore di un vero e proprio capovolgimento dell’etica, imponendo così il dovere di eliminare la categoria dei non umani, dando la possibilità a chiunque di rendersi un assassino: «dovrai uccidere tutti gli esseri colpevoli di uscire dal parametro di umanità stabilito da Hitler» [3]. Questa era la nuova legge.

Il nodo da sciogliere ora riguarda la questione della responsabilità delle azioni compiute. Eichmann si è da subito dichiarato «non colpevole nel senso dell’atto d’accusa»[4], posizione giustificata dal fatto che lui si sentiva un obbediente esecutore di una volontà che evidentemente non era più la sua, agiva in modo eterodiretto secondo la volontà di Hitler, il quale rappresentava la reale incarnazione della legge, dell’unico codice esistente che dovesse essere seguito. Quindi attenzione, Eichmann non viene privato della coscienza, non si è trattato di una sua improvvisa disattivazione, e neppure è accaduto che da un momento all’altro milioni di persone si siano rese sorde alla sua voce. L’aspetto drammatico sta nel fatto che quella voce interiore che guida la moralità dell’individuo e, di conseguenza, le regole base della convivenza sociale, aveva mutato i suoi schemi di riferimento e i suoi comandi, modificando una tavola di valori con un’altra. Eichmann ha perso la capacità di rispondere delle proprie azioni e di comprenderne il significato morale, non è più in grado di riflettere sul senso e sulle conseguenze del suo agire, e non per una superficiale ingenuità o deficienza delle capacità di ragionamento, ma perché la sua identità coscienziale ha subìto uno stravolgimento di quelli che fino a quel momento erano stati i normali parametri di giudizio. La coscienza di Eichmann, a questo punto, perde di fatto la propria autonomia, la capacità di autoregolarsi e autodeterminarsi, e proprio per questo motivo egli non si è mai trovato di fronte a nessun conflitto interiore fra la sua coscienza e lo svolgimento del suo ruolo. Ciò che è completamente assente non è quindi la coscienza, i cui paradigmi etici sono stati stravolti, ma il pensiero – quel dialogo silenzioso del sé con se stesso –, e si badi bene che con ciò non si intende affermare che a Eichmann manchi la capacità di ragionamento, anzi, Arendt opera una netta distinzione fra razionalità e pensiero. Con il termine pensiero si intende quella interiore e incessante attività dove l’essere umano si fa arbitro e giudice dei propri comportamenti, delle proprie azioni e delle proprie idee e ne certifica o meno la validità morale. Nella rispettabile nazione tedesca degli anni Trenta – quando il nazismo si era già affermato come forza politica dominante – i primi soggetti che iniziarono a non pensare più sarebbero stati i ‘buoni e bravi padri di famiglia’, quella borghesia che nel corso della modernità aveva subito una rapida trasformazione. Gli sviluppi del capitalismo prima e della società di massa poi, avevano fatto sì che la sfera pubblica venisse invasa dal mercato: la modernità, segnata dalla Rivoluzione industriale e dall’ascesa del ceto medio-borghese, si sviluppa facendo presa sugli interessi privati, a discapito del bene comune e di ciò che riguarda la collettività. In questo tipo di sistema gli esseri umani diventano accondiscendenti a qualsiasi tipo di potere politico pur di salvaguardare i propri interessi privati e tendono a isolarsi, arrivando così a perdere l’attitudine al confronto con gli altri individui e alla partecipazione attiva dello stare in società, perdendo così di vista la dimensione comunitaria. L’ideologia del regime nazista era stata da loro accettata perché forniva una sorta di sostituto formale dell’appartenenza politica. Tutta questa massa indistinta di soggetti era unita dal presupposto che la stirpe ariana fosse superiore alle altre e che la razza da eliminare fosse quella ebraica. Questi cittadini, resi apatici e indifferenti, non erano affatto soggetti inclini al male, ma fecero sì che individui come Eichmann riuscissero a guadagnarsi un posto di rilievo all’interno degli apparati di potere del regime: questa è la potenza dell’ideologia, dove lo sviluppo di un’idea non è che la conseguenza logica e necessaria di una premessa assunta come verità, dunque se si assume che gli ebrei siano dei parassiti sociali, la loro eliminazione risulta essere una valida e necessaria conseguenza logica.

Eichmann

Ritorniamo un momento sulla definizione arendtiana di pensiero, quella facoltà esclusiva dell’essere umano che gli permette di interrogarsi sui propri comportamenti, sulle scelte fatte e sulle proprie idee, al fine di non cedere alle premesse iniziali del discorso ideologico. Questa facoltà di giudizio «che nella sua riflessione tiene conto a priori del modo di rappresentare di tutti gli altri»[5] nel contesto nazista viene completamente soffocata. Per Arendt si tratta di una nozione strettamente legata al concetto di umanità, di un senso che ci inserisce in una comunità e ci permette di intervenire politicamente nella società in cui viviamo e di dare forma a un’esistenza autentica. Dunque ampliare il pensiero significa utilizzare molteplici punti di vista per istruire il proprio sé a un giudizio consapevole: questoè venuto a mancare nella società tedesca a causa di un processo che inizia con la massificazione e ha il suo apogeo con il regime nazista.
L’assenza di pensiero causa una vera e propria estraneazione dal senso di comunità, la quale non è semplicemente legata a una solitudine intesa come isolamento dalla massa, ma sta a indicare un fenomeno nel quale non si interagisce più con gli altri in modo profondo e le relazioni fra gli individui rimangono superficiali; in sostanza i problemi degli altri e l’ingiustizia sociale non ci toccano più, gli altri non vengono più kantianamente percepiti come un fine portatore di dignità, e l’interesse della comunità sembra non riguardarci in alcun modo.La mancanza di pensiero che si insinua nel popolo tedesco e nello stesso Eichmann va intesa concretamente come incapacità di ‘mettersi al posto degli altri’ e di raffigurarsi interiormente il mondo da una prospettiva che non è la propria, una «incurante superficialità, una confusione senza speranza, una ripetizione compiacente di verità diventate vuote e trite»[6].

Eichmann
Fotografia del processo – Fondo Valobra, Archivio CDEC

In definitiva Arendt sostiene che il pensiero non sia affatto possibile se l’essere umano viene a trovarsi in una situazione di estraneazione. Il pensiero non è altro che una riproposizione del conosci te stesso socratico, per cui l’attività filosofica era finalizzata ad aiutare l’uomo a comprendersi, a definirsi e a rendersi giusto e solidale con gli altri; ma questo dialogo interiore è possibile solo se gli individui hanno a cuore il bene comune e sono interessati e attivamente coinvolti all’interno della comunità.
La banalità del male non riguarda dunque solo questioni di ordine morale o coscienziale, anzi la volontà della filosofa è sempre stata quella di riportare tutto al piano politico, mostrando come i meccanismi interni di una società facciano da sfondo a un determinato modo di pensare e che i soggetti che vi vivono non siano altro che i prodotti estraniati di questo processo atomizzante. Questi sistemi portano l’uomo a convalidare e accettare il fatto che la comunità non lo riguardi, che il vivere sociale non lo debba toccare in alcun modo. A questo punto possiamo ben capire come tale capacità del regime nazista di disattivare il pensiero e la critica del sé, cambiando in concreto i contenuti stessi della morale, abbia fatto sì che uomini comuni e normali potessero compiere crimini di tale portata senza alcun tipo di risentimento. Ecco Eichmann, ecco spiegato quell’atteggiamento di superficiale mediocrità che è la banalità del male, dove di fronte a una corte che lo accusava dello sterminio di milioni di esseri umani Eichmann continuava a sostenere di aver agito nei limiti della legge e a ritenere che la sua vera e unica colpa venisse da una cieca obbedienza «esaltata in quel contesto come virtù»[7]. Questo è il male banale, figlio di un rifiuto del pensiero, del dialogo con se stessi, dell’assenza di quel quid che permette di deliberare in modo moralmente autonomo su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Chi pensa, invece, è in grado di prevenire il male e respingerlo, può opporsi alle imposizioni esterne che non coincidono con le proprie idee, può aprire uno spazio di giudizio autonomo come farmaco contro questa omologazione massificatrice e conformatrice colpevole dell’abisso morale in cui è stato gettato il Novecento.
Questo è stato il nazismo, un’ideologia che ha mostrato al mondo quali orrende crudeltà siano in grado di compiere gli uomini quando dimenticano o perdono la loro umanità, che ha reso possibile un male senza alcuna radicalità e di conseguenza estremo, che agli occhi di coloro che lo commettevano non veniva classificato né come crimine giuridicamente perseguibile né come azione moralmente deplorevole. Si è trattato di un male che aveva perso ogni sua profondità, diventato un’abitudine quotidiana, un gesto ripetitivo compiuto con superficialità da individui normali, comuni, banali, che nella loro mente avrebbero solo obbedito a degli ordini e svolto il loro dovere.

«Tu ci hai narrato la tua storia presentandola come la storia di un uomo sfortunato […], ma anche supponendo che la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario strumento dello sterminio, resta il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente appoggiato una politica di sterminio. La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. Tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico […], quasi tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra»[8].

Adolf Eichmann viene condannato a morte e impiccato intorno alla mezzanotte del 31 maggio 1962. Il cadavere fu fatto cremare e i suoi resti dispersi nel Mediterraneo, il secchio che conteneva le ceneri venne sciacquato diverse volte, affinché di lui non restasse alcuna traccia.


[1]Cavarero, Hannah Arendt e la banalità del male, Il Caffè filosofico, 2016.
[2] Forti, I nuovi demoni, Feltrinelli 2012, p. 241.
[3] Ivi, p. 248.
[4] Arendt, La banalità del male, Feltrinelli 2016, p. 29.
[5] Kant, Critica del giudizio, Laterza 2006, p. 150.
[6] Arendt, Vita activa, Bompiani 2004, p. 5.
[7] Arendt, La banalità del male, Feltrinelli 2016, p. 254.
[8] Arendt, La banalità del male, Feltrinelli 2016, p. 284.




Copertina: Adolf Eichmann durante il processo – Fondo Valobra, Archivio CDEC