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Un’ascia per il mare ghiacciato. Il male che non c’è di Giulia Caminito

Il romanzo di una generazione che vive accompagnata ai propri fantasmi

C’è chi affronta la vita di slancio, con coraggio, con convinzione; e c’è chi esiste per tentativi.
È questo e molto altro Loris, il protagonista del nuovo romanzo di Giulia Caminito, Il male che non c’è (Bompiani). Trentenne precario nato alla fine degli Ottanta, ha l’ambizione (corroborato da anni di formazione e da un modello educativo che gli ha sempre garantito la piena realizzazione delle sue vocazioni) di lavorare nel mondo dell’editoria e un male dentro, profondo e vorace, che nessuno vede: «Esistono i mali evidenti, le ferite, ma esistono anche i mali oscuri – si è detto – quelli che non li vedi ma sono i peggiori, sono i più crudeli».
Caminito torna alla narrativa tre anni dopo il grande successo de L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021) e per certi versi sembra riafferrare la coda del discorso iniziato proprio con l’opera precedente: chi sono davvero gli individui della generazione Millennial? Che cosa sognano, per che cosa soffrono? Che cosa sappiamo di loro, cresciuti e diventati adulti in un tempo tutto sommato pacificato, protetto e privilegiato? Alcune ipotesi le rintracciamo nella storia di Loris, giovane uomo appassionato di libri fino alla compulsività, colto e capace, figlio unico di genitori che lo hanno cresciuto con amore e fiducia nel futuro.

il male che non c'è

La narrazione alterna due tempi, uno al presente, in cui Loris adulto cerca a fatica di far quadrare la propria esistenza, e uno passato, in cui è bambino e al centro del suo mondo ci sono il nonno Tempesta con la sua casa di campagna e l’amico Gelo che è arrivato dalla Romania, l’orto, il progetto di costruire una voliera per colombi, il borgo fantasma di Galeria Antica.
Nel tempo presente la vita di Loris si regge su pilastri precari, sia dal punto di vista materiale che affettivo: per riuscire a fare il mestiere per cui ha studiato e per cui si sente portato e appassionato, è passato da uno stage mal pagato all’altro, fino all’approdo in una casa editrice, che finalmente sembra poter essere l’occasione definitiva. I seicento euro al mese però non bastano per mantenersi, e così l’appartamento romano in Monteverde che Loris ha preso in affitto glielo pagano i genitori.
Genitori che, sullo sfondo, restano l’unico welfare possibile, l’unico rifugio in caso di rovina, e che allo stesso tempo non capiscono perché Loris preferisca una carriera precaria a un qualsiasi lavoro stabile e dignitosamente remunerato. La stessa perplessità nutrita da Jo, fidanzata dai tempi della scuola, che sembra avanzare nella vita a passi spediti, tra un impiego in ufficio, un’assunzione in piena regola, l’indipendenza economica, e la cura amorevole della propria persona e del proprio tempo: «Lei sembrava conoscere esattamente chi sarebbe diventata, aveva un’idea di sé limpida e solida, era sicura di sapersela cavare in qualsiasi occasione».

Così Loris si sente inadeguato, inadempiente, in ritardo sulla propria esistenza: e se questo male si vede, si può riconoscere, ce n’è un altro più profondo e nascosto, che tormenta Loris da un’età bambina. Un male che è cresciuto con lui, che non lo abbandona mai, un male che non si manifesta in una tangibilità corporea, patologica, clinica: l’ipocondria.
Il romanzo a questo punto imbocca una strada molto interessante, e cioè quella dell’invenzione letteraria che gioca con i generi e con le aspettative del lettore: se da una parte la scrittura di Caminito racconta esplicitamente l’ostinazione ossessiva con cui Loris perlustra il proprio corpo alla ricerca di un nodulo, di una malformazione, di un tumore, di una prospettiva di morte, procedendo per accumuli ed elenchi ansiogeni, dall’altra sceglie una cifra più visionaria, trasformando l’ipocondria del protagonista in un vero e proprio personaggio, di nome Catastrofe.
Catastrofe è una creatura mutaforma, che appare a Loris nei momenti di maggiore sconforto e solitudine, talvolta ha le sembianze di una bambina azzannatrice di carne sanguinolenta, talvolta quelle di una donna con caftano e antenne da coccinella, talvolta indossa pantaloni da lavoro e rivela una coda di gatta, talvolta sembra un mimo. E Catastrofe impersonifica l’onnipresente angoscia di Loris: di non farcela, di restare indietro, di non essere come gli altri; di ammalarsi e di morire.
E i simboli non mancano nemmeno nel piano narrativo al passato: i colombi con la loro bellezza e la loro fragilità, una gabbia che forse è anche protezione, la morte che arriva come una scheggia impazzita, nella selvaticità come in una stanza disinfettata – tutto prepara il Loris bambino all’uomo che, suo malgrado, diventerà.

il male che non c'è

Lo stile di Caminito, materico ed essenziale, illumina il racconto e ne mantiene incalzante il ritmo, i personaggi non cercano l’empatia del lettore, le questioni che emergono sono molte e decisamente contemporanee ma non il risultato di una scrittura a tesi, piuttosto di una visione: l’adultità che si sfalda contro un mondo che non consente la piena emancipazione, la famiglia in bilico tra cura e controllo, lo sfruttamento lavorativo, la precarietà economica, le gravi mancanze del servizio sanitario nazionale, la prima esperienza con la morte – che spalanca e sancisce il tempo della paura.
Una società – la nostra, del nostro oggi – perennemente alla ricerca di uno spazio per raccontarsi, anche a costo di mistificare: i social network costringono Loris al confronto costante, e pure nella consapevolezza che ciò che viene esposto è sempre parziale e il risultato di un’accurata selezione, gli causano un profondo malessere. Una società aggressiva, sempre pronta alla gogna collettiva: da dove viene tutta questa rabbia, tutta questa voglia di infliggere dolore?

Il protagonista vuole raccontare del suo male a tutti, ai genitori, a Jo, ai medici che lo visitano. E ancora prima che curato, vuole essere creduto e ascoltato: vuole essere visto. E forse qui il romanzo sembra risalire la china, offrire uno spunto per lasciare l’inferno: forse la domanda è come? Come si fa, a essere visti per davvero? A essere riconosciuti anche nelle proprie mancanze?
Loris, nel cercare disperatamente il riconoscimento del suo male, sembra esprimere proprio questo interrogativo. Il suo corpo, i corpi dei Millennial: stretti tra una Catastrofe e un volo di colombi, incapaci di corrispondere al futuro che era stato immaginato per loro, chiedono che il loro dolore sia nominato, accolto. Non vogliono un farmaco che lenisca, sarebbe soltanto il veleno greco dell’etimologia: domandano di esistere.

Il male che non c’è, è importante ricordarlo, è un romanzo, un’opera di fiction: se pure attinge al bios dell’autrice, come da lei stessa affermato, lo fa trasformandolo in materia narrativa. Si tratta di una scelta peculiare, soprattutto se si pensa alla proliferazione di opere autobiografiche con al centro storie di trauma e dolore, nelle quali la sovrapposizione tra chi scrive e personaggio sembra essere uno dei principali catalizzatori dell’attenzione.
Caminito invece scansa l’equazione della letteratura come specchio, o quantomeno prende lo specchio e lo manda in frantumi: starà a chi legge ricomporre i pezzi, non è detto che ne verrà fuori il nostro riflesso preciso, magari sarà una faccia contorta, montata al contrario, in cui non ci riconosceremo affatto.
E va bene così, soprattutto se come Kafka ci crediamo ancora: un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.




In copertina: Meghan Howland, dettaglio

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