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Il lupo dentro. Maeve di CJ Leede

Una serial killer nell’era digitale

Maeve ha ventisette anni, abita in una villa sulle colline di Los Angeles e fa l’animatrice in un gigantesco parco dei divertimenti. La sua vita scorre tra feste a cui partecipa con la sua amica Kate e il lavoro che considera il più bello del mondo. L’amore per sua nonna e le letture le consentono di placare i suoi demoni interiori, i lupi feroci pronti a mostrare le zanne quando la vita di tutti i giorni la prende a pugni. Ma non bastano gli svaghi e le droghe che assume saltuariamente a sedare la sua furia. Quando in città approda Gideon, statuario giocatore di Hockey e fratello della migliore amica Kate, l’equilibrio psichico di Maeve viene completamente sconvolto, risvegliando totalmente quei mostri che fino a poco prima è riuscita a tenere a bada.

CJ Leede è un’autrice talentuosa e pimpante candidata al Bram Stoker Award, vincitrice di diversi premi letterari negli Stati Uniti e sbarcata in Italia grazie a Mercurio, nuova casa editrice nata a Roma che, stando alle premesse, non mancherà di sorprendere i lettori italiani nei prossimi mesi.

Il romanzo d’esordio della scrittrice losangelina, Maeve, appunto (tradotto ottimamente da Gaja Cenciarelli) è un concentrato di citazioni e generi: un horror senza dubbio, ma con una robusta venatura romantica che spesso accarezza la commedia, senza però dimenticare gli schemi del thriller squisitamente americano. Tra i diversi omaggi e le tante fonti di ispirazione che Leede si diverte a disseminare nel corso della storia, come il cinema e la musica di Rob Zombie, o Pet Sematary di King giusto per citarne un paio, ne spicca una in particolare, quella di American Psycho, opera-icona per intere generazioni di autori e che in questo libro vede una sincera lettera d’amore.

Attenzione però perché, se da un lato l’accostamento è innegabile, dall’altro molti potrebbero erroneamente sospettare che il romanzo della giovane autrice sia un maldestro tentativo di emulazione. L’ascendenza è palese, specie nello stile costruito sulla prima persona e sul ritmo, ma le differenze sono tanto evidenti da troncare sul nascere anche le più sottili forme di scimmiottamento.

American Psycho fotografa un periodo storico preciso, cioè la fine degli anni Ottanta, in un luogo inquadrato con altrettanta meticolosità: quella città stratificata e simbolo dell’imperialismo americano che è New York, metropoli multiculturale nonché capitale del vizio, del consumismo sfrenato e dell’edonismo dominante in quegli anni. Maeve è ambientato più di trent’anni dopo sul lato opposto degli Stati Uniti, a Los Angeles, in piena era digitale. Il tempo di Maeve è infatti quello di Instagram e TikTok, il nostro tempo, quello della comunicazione virtuale, insidiosa e fugace.

È proprio analizzando le due epoche, diverse e tuttavia con alcuni punti di contatto, che l’autrice riesce a elaborare una storia personale, definendo con chiarezza il carattere della protagonista, il suo modo di vivere, le passioni e le ossessioni.

Quasi a esaltare il modello principe, in epigrafe, oltre a citazioni tratte da Bataille e Dostoevskij, troviamo inchiodata la celebre frase «Questa non è un’uscita», enigmatica chiusura del capolavoro di Bret Easton Ellis, qui utilizzata sapientemente per dare inizio a una storia che sì, vede nell’estetizzazione del sangue e nella crudeltà alcuni dei nuclei fondamentali, ma che allo stesso tempo è attraversata da un personaggio completamente diverso da Patrick Bateman, il quale è uno psicopatico puro, incapace di provare qualunque forma di empatia nei confronti del prossimo.

Maeve al contrario è una figura più vicina a noi e alla nostra umanità: una ragazza spaesata, sofferente, spaventata dall’amore eppure desiderosa di perdersi nei sentimenti che la vita inevitabilmente ci fa provare.

Nell’universo di Maeve, i genitori sono figure sfumate, quasi inesistenti. L’unica personalità familiare importante e degna di stima è la nonna, ex diva Hollywoodiana, che però per cause naturali non può essere presente e vicina come la nipote vorrebbe. C’è inoltre il rapporto con Kate, la migliore amica, una relazione oscurata dal conflitto, dalla competizione e dal senso di possesso delle cose e soprattutto, delle persone. Kate è un’aspirante attrice, arrivista ed egocentrica, Maeve è invece una pensatrice convinta di avere dalla sua parte l’arma dell’astuzia, ma basta un’incomprensione o una parola fuori posto a far sì che la struttura fragile su cui si regge il loro rapporto si sfondi, scatenando il “lupo” che c’è dentro l’anima della protagonista.

Proprio come il mondo in cui viviamo, Maeve è veloce e frenetico, un racconto cadenzato da scene di assoluta brutalità e attimi di grande romanticismo, i quali danno corpo e spessore a un romanzo che è sì un’opera prima, ma anche la prova di una consapevolezza autoriale che pare essere già consolidata. Anche se manca la padronanza stilistica e la geometria perfetta che distingue i capitoli di Ellis, Leede mostra sincerità e cuore trasfigurando sé stessa in un personaggio posseduto dalla crudeltà ma fragile in egual misura, una persona nevrotizzata da una società dove solitudine e anaffettività sono disagi proliferati in fretta e che purtroppo, contagiano l’interiorità di molti. Ecco perché Maeve è un libro a cui voler bene.


Immagine di copertina: Maeve di CJ Leede, Mercurio


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