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“Adelaida”, il coraggio antico di una donna moderna

Tracce e suggestioni del mondo classico nell’ultimo libro di Adrián Bravi


Non seguo la letteratura di genere e non stravedo per il genere biografico, ultimamente molto in voga. Ma un libro non va mai valutato pregiudizialmente, sulla sola base del genere cui vuole (o sembra) appartenere. Adelaida, l’ultimo libro di Adrián N. Bravi (da poco edito da Nutrimenti), nonostante sia anche una documentata biografia, mi ha infatti coinvolto (e a tratti commosso) come una fiction romanzesca, storica e psicologica al tempo stesso.

La trama si snoda nella seconda metà del secolo scorso tra due mondi apparentemente lontani: l’Italia e l’Argentina, Recanati e Buenos Aires. La protagonista, Adelaide Gigli, è una donna recanatese di nascita, ma argentina di adozione, di lingua e di cultura; un’intellettuale e un’artista figlia a sua volta di intellettuali e di artisti. La sua famiglia, per fuggire il fascismo, lascia Recanati nei primi anni Trenta, quando lei è ancora bambina, e si trasferisce in Sudamerica. A Buenos Aires Adelaide (diventata in spagnolo Adelaida) vive una giovinezza e una maturità intensissimi. Animatrice culturale e letteraria di primo piano, attivista politica appassionata e coraggiosa, scrittrice e artista instancabile dedita alla ceramica e alla coroplastica, la sua eccezionale parabola esistenziale si spezza improvvisamente nella seconda metà degli anni Settanta, quando in Argentina sale al potere la dittatura militare di Videla. I suoi giovanissimi figli Mini e Lorenzo, militanti dei montoneros, vengono sequestrati e assassinati in segreto dalla polizia di regime. Diventano due tra le migliaia di oppositori desaparecidos, verosimilmente vittime di torture prima e poi dei famigerati “voli della morte”. Adelaida è costretta a fuggire dalla capitale argentina e, dopo varie e rischiose peripezie, ritorna in Italia, a Recanati. È nella sua terra natale, ma per lei di fatto ormai straniera, che Adelaida trascorrerà da esule gli anni della maturità e della vecchiaia, fino alla morte in solitudine e in preda all’Alzheimer, in una casa di riposo. Negli anni del suo ritorno-esilio a Recanati Adelaida stringe amicizia proprio – direi: inevitabilmente – con Adrián Bravi, bibliotecario e scrittore che condivide con lei un destino in limitata misura parallelo: di famiglia originariamente recanatese emigrata da tempo in Argentina, anche l’autore è in realtà nato e cresciuto fino a venticinque anni a Buenos Aires, ma poi è riemigrato ancora molto giovane in Italia, alla fine degli anni Ottanta, proprio a Recanati. Questo spiega perché la biografia che Bravi scrive di Adelaida Gigli non è (non può essere) una distaccata ricostruzione storica, bensì una amorevole e spesso sofferta rivisitazione di una vicenda umana, per diversi ed ovvi motivi, cara e congeniale all’autore, quasi familiare.

Adrián N. Bravi, Adelaida

La storia di Adelaida è ricostruita da Bravi evitando una scontata linearità temporale. Inizia infatti, significativamente, in medias res, con la tragica svolta della vita di Adelaida: il sequestro e la scomparsa della sua giovanissima figlia Mini nell’agosto del 1976, nei pressi dello zoo di Buenos Aires, in un drammatico frangente nel quale la ragazza, mentre si avvede di essere inseguita dalla polizia politica e tenta inutilmente la fuga, riesce a consegnare nelle mani di due anziani sconosciuti la figlia Inés di appena nove mesi. Un salto in avanti del racconto ci porta quindi al 1988, anno in cui l’autore stringe amicizia con Adelaida a Recanati. Si retrocede di qui brevemente alla lontana infanzia recanatese di lei per poi spostarsi di nuovo in Argentina, negli anni tumultuosi ed entusiastici della sua giovinezza. Nella seconda parte la storia, tra molti flashback e diversioni narrative, si avvia alla conclusione come il corso di un fiume alla foce: il tempo narrativo pian piano rallenta fin quasi a spegnersi, nelle ultime pagine, nella elegia dolceamara degli ultimi anni recanatesi, segnati da una tenace continuità di vita attiva e creativa, ma anche dalla ineludibile e dolorosa prigionia nella memoria del proprio passato. Di questo ultimo periodo e di queste memorie di Adelaida l’autore diventa di fatto il testimone diretto, il confidente e l’affidatario principale.

Forte è l’impressione che questo libro voglia essere, per molti versi e per lunghi tratti, un libro militante, come lo è stata la vita della protagonista. Che l’autore, cioè, non solo assolva, scrivendolo, a un personale e affettuoso munus amicitiae nei confronti di Adelaida, ma anche e soprattutto compia un atto d’amore verso la propria terra e di riconoscenza verso la parte migliore della sua nazione che Adelaida per lui rappresenta. Amore autentico, beninteso: non la generica, oleografica nostalgia della “patria”, bensì la passione umana e civile di un esule che vuole contribuire a suo modo a riscattarla. E delle nefandezze e delle tragedie storiche e politiche che hanno macchiata e straziata l’Argentina nel secolo scorso, la storia di Adelaida e dei suoi figli ed amici è senza dubbio uno specchio accecante. In questo specchio Bravi fissa uno sguardo fermo e partecipe al tempo stesso. Ma, secondo me, la fermezza, la lucidità e la precisione – a tratti molto analitica e forse ingrata per un lettore europeo, quando si concretizza in dettagliati riferimenti storici e geografici, culturali e letterari – prevale in modo virtuoso sulla partecipazione, rendendola, proprio perché non esibita ma contenuta dalla sobria levità dello stile, più profonda e toccante. Soprattutto nel finale. Sì, perché il finale del libro – la vecchiaia, la malattia e la morte di Adelaida – è forse la parte più intensa, più umanamente ricca e riuscita dell’opera. In questa parte alla tragedia familiare e politica di Adelaida si sovrappone infatti e subentra, quasi insensibilmente, la tragedia umana, tutta intima, dell’eclissarsi lento della memoria («dramma irreversibile… mostro invisibile», p. 117). L’Alzheimer diventa il nemico, inesorabile, che insidia e depreda a poco a poco il doloroso, ma sempre vivo e vitale, tesoro di ricordi familiari che alimentava la sopravvivenza e la creatività inesausta della protagonista. Un tesoro che pian piano si disperde, si frammenta, svapora nonostante i tentativi disperati di Adelaida di fermarne la fuga. Così la vita la abbondona, ancor prima di finire, nel silenzio totale dell’anima e della lingua.

Questo trascolorare o confluire in extremis di una tragedia “storica” in una tragedia “naturale” mi ha richiamato d’istinto alla mente una scena omerica famosa e a me familiare: l’episodio finale dell’Iliade, laddove Achille lamenta davanti al vecchio Priamo la sorte che Zeus, attingendo a due vasi ricolmi di beni e di mali, riserva agli esseri umani: per nessun vivente infatti – dice Achille – Zeus attinge soltanto al vaso dei beni, bensì quasi sempre ad entrambi; ma poi ci sono pure alcuni individui, molto più sventurati degli altri, per i quali Zeus attinge solo ed esclusivamente al vaso dei mali. Un destino del genere – una sorta di “privilegio” negativo per pochi eletti – sembra proprio essere quello toccato ad Adelaida, per quanto la protagonista lo illumini, lo contrasti e lo riscatti con la sua energia e la sua vitalità tenace, creativa e reattiva (oggi si direbbe: resiliente).

Omero a parte, mi colpisce già nell’incipit dell’Adelaida un richiamo, molto preciso ed esplicito, ad altri autori e motivi della letteratura classica. Nella scena iniziale, quella del sequestro di Mini, Bravi cita ed evoca a più riprese Euripide a proposito dell’imprevedibilità (spesso atroce) della sorte umana cantata, a mo’ di refrain, nella chiusa di diverse sue tragedie; e poi allude in maniera inequivocabile al topos, frequente nel teatro classico, dell’affidamento di un bambino abbandonato, con tanto di segni di riconoscimento al seguito, a degli sconosciuti; un luogo comune comico che però – direi scontatamente, dato il contesto – Bravi ripropone, a partire dalla angosciosa scena d’apertura del sequestro di Mini, in chiave drammatica.

Succede tuttavia che, dopo questo precoce e vistoso affiorare di archetipi letterari antichi essi poi si diradino parecchio nel resto dell’opera, disseminandosi dentro una rete, fittissima per altro, di riferimenti alla cultura e alla letteratura moderne, soprattutto argentine.

Eppure la storia e la personalità di Adelaida, considerate nel loro insieme e soprattutto nella fase dell’esilio, ricordano oggettivamente un po’ quelle di qualche celebre eroina del mito e della letteratura antica. Mi riferisco ad Ecuba e ad altre figure femminili, sventurate ma coraggiose protagoniste delle già citate (anche da Bravi) Troiane di Euripide. E tra loro in particolare mi riferisco ad Andromaca, l’infelice principessa troiana orbata dalla ferocia della guerra di tutti i suoi cari, compreso il figlioletto Astianatte, trucidato in fasce dagli Achei. Bravi cita il nome di Andromaca solo una volta, come titolo, fra altri, di una famosa tragedia di Euripide, ma poi i possibili confronti con Adelaida non vengono mai né accennati né sviluppati. Eppure Adelaida (mutatis mutandis) assomiglia in certa misura all’Andromaca virgiliana visitata da Enea nel finale del terzo libro dell’Eneide: una donna esule, appunto, che vive nel ricordo dell’antico prestigio e dei distrutti affetti familiari e che, dopo varie traversie, ha trovato tregua e rifugio (con il compatriota e nuovo sposo Eleno) a Butroto, una piccola città dell’Epiro, una parva Troia, surrogato malinconico e pallido simulacro della patria perduta. Un po’ quello che, per Adelaida in esilio, diventa Recanati rispetto a Buenos Aires. E se si legge la pagina, splendida, che Bravi dedica proprio ai modi con cui (e alle ragioni per cui) Adelaida coltiva religiosamente a Recanati le sue dolorose memorie familiari non si può non riandare proprio alla prima apparizione, sulla scena virgiliana, di Andromaca davanti agli occhi di Enea:

«Adelaida stava imparando a convivere con i suoi fantasmi o, meglio, stava imparando ad accettarli, ad accoglierli in sé. Si costruì un altare interiore dove ogni giorno, impastando la creta o scrivendo, cercava il volto dei suoi figli, vuoi attraverso la rappresentazione dei carnefici, vuoi attraverso la spaccatura di una pietra; erano sempre loro due, Mini e Lorenzo, a venirne fuori nei modi più diversi. Diede voce alle sue mani per plasmare il dolore che le era toccato in sorte. Viveva ogni istante senza perdere la minima occasione di invocarli nella sua solitudine. I suoi figli non erano solo un ricordo privato di quello che era stato, l’infanzia, la giovinezza, la lotta armata, ma rappresentavano un intero spaccato storico. La loro memoria, scissa dalla prospettiva individuale, diventava una faccenda politica.» (p.87, corsivo mio)

~ … forte dapes et tristia dona
ante urbem in luco falsi Simoentis ad undam
libabat cineri Andromache manisque vocabat
Hectoreum ad tumulum, viridi quem caespite inanem
et geminas, causam lacrimis, sacraverat aras
.  (Aen. III, 301ss.)

[…in quel momento Andromaca, in una radura davanti alla città [Butroto], stava offrendo alle ceneri dei suoi cari libagioni e tristi doni sulla riva di un falso Simoenta e invocava gli dèi protettori della sua famiglia davanti al tumulo vuoto di Ettore da lei consacrato sopra una verde zolla insieme a due altari, per lei fonte inesauribile di pianto.  (trad. mia)]

E con l’Andromaca virgiliana viene di conseguenza in mente, per Adelaida, anche l’Andromaca de Il cigno di Baudelaire, dove la sventura della donna troiana riassume quella di tutti gli esseri umani strappati a se stessi e alla loro esistenza elettiva dalla violenza della storia e della società.

Certo si tratta in questo caso di analogie (per quanto davvero suggestive – almeno nel caso di Virgilio) di carattere relativamente generale. Non va inoltre trascurato che, rispetto all’Andromaca di Virgilio (ma anche a quella di Omero e di Euripide), l’Adelaida di Bravi dimostra una libertà, un anticonformismo ed un’autonomia di pensiero e di azione tutte moderne, piuttosto estranee a quell’antico modello di femminilità. Bravi per altro non allude mai espressamente all’Andromaca virgiliana né a quella di Baudelaire. Forse semplicemente perché, almeno consapevolmente, non le tiene presenti. Dei grandi esuli dell’antichità, in effetti, egli cita espressamente, en passant (et pour cause), soltanto Ovidio.

Tuttavia, leggendo questa biografia di una donna esule, mi è capitato sovente di pensare (un po’ come succede a Baudelaire nel Cigno) proprio ad Andromaca. Forse la mia è stata un’indebita sovrapposizione “intertestuale” da lector in fabula (come avrebbe detto Eco) condizionato dalla propria formazione di antichista; ovvero un’interpretazione troppo soggettiva ed arbitraria – antifilologica – del testo di Bravi. Resto comunque convinto che chiunque si accosti a questo libro con un minimo retroterra di studi classici difficilmente non avvertirà, per così dire, l’ombra lunga del paradigma mitico sulla protagonista, specie dopo essere stato sollecitato (direi quasi autorizzato) ad avvertirlo, già nell’incipit, da Bravi stesso con quei richiami alla classicità così scoperti e significativi.

Anche (ma non solo) per questo possibile riverbero dell’antico sul moderno, la vicenda di Adelaida e della sua famiglia si arricchisce, mi pare, di un valore simbolico aggiunto che trascende la contingenza storica in cui si svolge. Se è vero, infatti, che il destino di Adelaida e dei suoi si lascia a momenti iscrivere, per esplicito richiamo dell’autore o per oggettiva e sensibile analogia, nelle coordinate del mito, ciò significa allora che si propone anch’esso ai nostri occhi come esemplare: ripetizione cioè di tante, troppe tragedie individuali della storia umana. Inoltre, collocandosi di quando in quando anche su questi riconoscibili sfondi letterari, oltre che nel proprio contesto storico, la biografia di Adelaida diventa più vicina e comprensibile – meno straniera – per chi ignori o conosca poco la cultura e la storia argentine.

Insomma: quella del mondo classico è, secondo me, una presenza, per quanto saltuaria e sporadica, abbastanza percettibile nel libro di Bravi: in modo netto e consistente all’inizio, poi per più rari e distanziati affioramenti “carsici” o per suggestioni indirette. E non mi pare comunque che si tratti di una componente irrilevante o marginale. Anzi, mi sembra che essa contribuisca da par suo – insieme alla sorvegliata qualità della scrittura e all’intensa empatia che costantemente la ispira – a fare di una biografia storica un’opera letteraria. Un racconto cioè, per dirla con Aristotele, non tanto di ciò che è accaduto, ma di ciò che può sempre (e comunque ed ovunque) accadere.



Immagine di copertina di “Adelaida” – Adrián N. Bravi, Nutrimenti (2024)
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